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Il giusto nella Bibbia

di Giuseppe Deiana

Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro La rivoluzione dei giusti. Un'alternativa alla globalizzazione dell'indifferenza di Giuseppe Deianapresidente dell'Associazione Centro Comunitario Puecher. Il volume, edito da Mimesis, sarà disponibile nelle librerie in occasione del 6 marzo, Giornata europea dei Giusti.

Nel libro della Genesi 6,9, Noè è descritto come “uomo giusto e senza difetti, e si comportava come piace a Dio”. La figura del giusto fa parte della tradizione ebraica a partire dal testo biblico, secondo il quale il giusto è comunemente una persona normale capace di distinguere il bene dal male rifiutando l’indifferenza e assumendosi le sue responsabilità, anche quando è necessario sacrificarsi per gli altri. Il Libro delle tre religioni monoteiste, il Libro dei libri, la Bibbia appunto (biblía significa “libri”) al Salmo 71, 16, canta il Signore con queste parole: “Ricorderò le opere giuste che tu solo hai compiuto”. Il Salmo 1, 1-6, invece, mostra la contrapposizione irriducibile delle due vie, quella del giusto e quella del malvagio. “Felice l’uomo giusto: non segue i consigli dei malvagi, non va insieme ai peccatori, non sta con chi bestemmia Dio; ma sua gioia è la parola del Signore, la studia notte e giorno. Come albero piantato lungo il fiume egli darà frutto a suo tempo, le sue foglie non appassiranno: riuscirà in tutti i suoi progetti. Non è questa la sorte dei malvagi: foglie morte portate via dal vento! Saranno condannati in giudizio ed esclusi dal popolo dei giusti”.

Ma le cose non sono semplici e lineari. Infatti, sempre secondo la Genesi, Dio distrugge Sodoma e Gomorra per la corruzione imperante, cioè a causa dell’assenza anche solo di un minimo numero di “innocenti” (così nella traduzione interconfessionale della Bibbia sono definiti i giusti), nonostante i tentativi di Abramo di salvare le due città. “Abramo invece, rimasto ancora davanti al Signore, gli si accostò e gli disse: ‘Faresti tu perire così il giusto insieme con l’empio? Se in quella città vi fossero cinquanta uomini giusti, li faresti tu perire insieme agli altri? Oppure non perdoneresti tu a quel luogo per amor dei cinquanta giusti che vi potrebbero essere? Lungi da te una tal cosa! Far perire il giusto insieme con l’empio, trattare il giusto come il colpevole! Lungi da te! Il Giudice di tutta la terra non agirà secondo giustizia’. Il Signore rispose: ‘Se trovo nella città di Sodoma cinquanta giusti, io, per amor loro, perdonerò a tutta la città’. Ma Abramo replicò, dicendo: ‘Ecco, ti prego, benché io sia polvere e cenere, mi permetto di insistere presso il mio Signore: Se a quei cinquanta uomini giusti ne mancassero cinque, distruggerai ugualmente tutta la città, per cinque di meno?’ E il Signore gli rispose: ‘Se ne trovo quarantacinque, non la distruggerò’. Abramo continuò, dicendo: ‘Forse ce ne potrebbero essere quaranta’. E il Signore: ‘Non lo farò per amore di quei quaranta’. 'Deh', riprese Abramo, 'non si adiri il mio Signore, se continuo a parlare. Forse ce ne potrebbero essere trenta’. E il Signore gli rispose: ‘Se ce ne trovo trenta, non lo farò’. E Abramo disse: ‘Ecco, se permetti, io oso parlare ancora al mio Signore: forse ce ne potrebbero essere venti’. E il Signore: ‘Per amore di quei venti non la distruggerò’. Abramo allora soggiunse: ‘Deh, non si adiri il mio Signore, parlerò solo più questa volta: forse ce ne potrebbero essere dieci’. E il Signore rispose: ‘Per amore di quei dieci non la distruggerò’. Finito che ebbe di parlare con Abramo il Signore se ne partì, e Abramo ritornò dai suoi (…). Allora il Signore fece piovere sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco, da parte del Signore, dal cielo, e distrusse quelle città e tutta la pianura, tutti gli abitanti della città e ogni germinazione del suolo” (Genesi, 18, 23-33; 19, 24-25).

Bisogna dire che in altre parti della Bibbia si dice, invece, che i giusti fanno cose molto belle, anche se spesso non vengono conosciute e apprezzate.

Nel Vangelo la misura dei giusti è data dalla pratica delle beatitudini indicate dal Cristo nel Discorso della montagna. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli! Beati gli afflitti, perché saranno consolati! Beati i miti, perché erediteranno la terra! Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati! Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia! Beati i puri di cuore perché vedranno Dio! Beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio! Beati quelli che son perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli! Beati sarete voi, quando vi oltraggeranno e perseguiteranno, e falsamente diranno di voi ogni male per cagione mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli, perché così pure hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi” (Matteo 5, 3-12).

Il criterio è dato dall’impegno concreto in tal senso: “Non chiunque mi dice: Signore! Signore! Entrerà nel regno dei cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli” (Matteo 7, 21-22). Non si tratta di una teoria generale del bene, ma l’indicazione delle condizioni oggettive e specifiche in cui esercitare la compassione e la pietà, il dono e la misericordia, l’amore e la giustizia, l’altruismo e la cura: virtù ben rappresentate dal buon samaritano (Luca, 10, 25-37) e indicative della risposta alla domanda: “Chi sono i miei fratelli?”. I fratelli sono gli altri nel senso indicato appunto dalla parabola del samaritano che, invece di tirare dritto come gli uomini passati prima di lui, vedendo l’uomo gravemente ferito dai briganti, diversamente dal sacerdote e dal levita, si ferma e lo assiste con compassione. L’insegnamento evangelico è dunque chiaro: i più grandi nemici della vita civile sono i “passanti innocenti”, cioè quegli individui che restano indifferenti e impassibili di fronte alla violazione dei diritti umani e della dignità dell’uomo; ma in ogni tempo e in ogni luogo ci sono persone che vivono non solo per sé, ma anche per gli altri. Grazie a queste persone buone l’umanità si riscatta dalla cattiveria, dall’egoismo e dall’ignoranza del male. In questo senso, negli Atti degli Apostoli si parla di “Giuseppe, detto Barsabba, il quale era soprannominato Giusto” (At. 1, 23).

L’idea cristiana dell’essere giusto è ripresa a modo suo da Dante nel XIX canto del Paradiso (“Cotanto è giusto…”): l’essere cristiani si riconosce solo dai comportamenti umani ispirati alla giustizia, che legano strettamente la giustizia divina alla giustizia umana, come giustizia sostantiva rapportata alla dignità umana. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, canto XXVI). La virtù è quella cristiana, che consiste nel mettere al centro l’idea secondo cui l’uomo può scegliere ed essere responsabile delle proprie azioni in ogni momento, anche nelle condizioni più difficili. La traduzione filosofica delle indicazioni dei testi biblici è stata condensata in una concezione dell’uomo che ha preso il nome di personalismo, con particolare riferimento al personalismo cristiano, che costituisce il paradigma della filosofia cristiana della storia e che indica nella prospettiva della salvezza dell’uomo e dell’umanità, derivante dal sacrificio di Gesù Cristo, l’affermazione dei valori umani fondamentali e universali, a partire dalla centralità della dignità della persona, intesa in senso globale, cioè sia trascendente che sociale.

Si tratta di una condizione caratterizzata dalla capacità di mettere in discussione l’irreversibilità dell’azione di male e di dare vita, nei rapporti personali e sociali, a qualcosa di nuovo nel modo di stare insieme, che non scaturisce da un’autorità superiore, ma prevalentemente dal dialogo costruttore di ponti e dal confronto plurale, e prima ancora dal profondo della coscienza morale generativa di nuovi comportamenti altruistici. Ciò a cominciare dall’esercizio dell’autocritica, come abitudine al conflitto con se stessi, perché il suo esercizio si fonda sulla convinzione che totalitarismo e autoritarismo, colonialismo e segregazionismo, fondamentalismo e mafiosità, militarismo e etnicismo ecc., almeno potenzialmente o parzialmente, abitano dentro ogni essere umano, soprattutto quando è trasformato in una bestia mostruosa, e si alimentano nella pratica della viltà e dell’ipocrisia, della furbizia e della crudeltà, della violenza e dell’intolleranza, che fanno dimenticare l’insegnamento (religioso e laico insieme) contenuto nel monito evangelico “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Giovanni, 8,7). Perciò, l’importanza del perdono, sulla scia del pensiero di Jacques Derrida e di Hanna Arendt per la quale, dopo un terribile trauma genocidario, la capacità umana del pentimento e del perdono, a partire da se stessi e dall’autostima personale, consente alle nuove generazioni di riconciliarsi liberando le coscienze dal peso morale di un passato criminale. Il perdono, inteso nella concezione laica, o nella convinzione religiosa (come, ad esempio, nel caso del giovane partigiano Giancarlo Puecher prima di essere fucilato dai fascisti, che vengono perdonati perché “non sanno quello che fanno”), sviluppa la dimensione di relazione e di riconciliazione ristabilendo l’uguaglianza tra le persone, facendo leva sull’amore, sul dono e soprattutto sulla mitezza dell’umano e la leggerezza dell’essere che, secondo la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano, sono fondati sull’umiltà (Luca, 18,14: “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”).

Per questo, all’inedito dizionario di uno statuto morale del giusto non può mancare anche la mitezza: parola spesso considerata antica, o irrisa con fastidio, al massimo relegata in testi distanti come la Bibbia (Salmo 37, 11: “I mansueti possederanno la terra e saran lieti di una gran pace”; Matteo, 10,16: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come colombe”). In realtà, l’essere miti contribuisce talvolta ad aumentare la docilità, a ridurre l’aggressività e quindi a produrre terapie rispetto al furbismo utilitaristico, al cinismo compiacente, al servilismo umiliante, come anche alla violenza selvaggia tra le persone. In questo senso, la docilità, la leggerezza e la mitezza aprono la strada alla fiducia che, riposta innanzitutto in se stessi, consente di immaginare e realizzare un futuro differente anche nella dimensione pubblica legata al progresso economico, alla trasformazione sociale e allo sviluppo politico, nelle loro molteplici espressioni locali e globali. Si tratta di valori che, pur se coniugati in forme diverse, si riscontrano sia nella concezione religiosa (non fondamentalista e dogmatica) sia nella visione laica (non radicale e assoluta) della vita, aperte al dialogo fecondo e innovativo, come condizione per costruire una convivenza tollerante e una socialità plurale.

Giuseppe Deiana, presidente dell'Associazione Centro Comunitario Puecher

14 dicembre 2015

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