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Solidarietà complessa per un'umanità minima

di Francesco Tava

Un’idea, forse più di qualunque altra, ha accompagnato l’evolversi del progetto politico europeo, dalle sue prime formulazioni, fino ai tempi più recenti. Di “solidarietà” si parla nel Manifesto di Ventotene (1944), per indicare ciò che è andato perso, durante la crisi che ha investito la civiltà moderna, ma anche ciò che occorre recuperare, in vista di una riforma della società nel dopoguerra. Altiero Spinelli e gli altri autori del Manifesto avevano in mente un’idea forte di solidarietà; essa non si sarebbe dovuta manifestare sotto alcuna forma caritativa, sempre avvilente e controproducente, ma piuttosto attraverso “una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio”. Si tratta di una solidarietà che richiede, per essere realizzata, non semplicemente una comunione d’animi e d’intenti, ma un preciso progetto politico, al di là degli scismi e delle divisioni che a quel tempo segnavano tragicamente il panorama europeo.

Questa idea, nonostante numerose battute d’arresto, sembra non essere tramontata. Nel Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore due anni dopo, la parola “solidarietà” ricorre venti volte. La si trova nell’articolo 1bis (che integra l’articolo 1 del precedente trattato di Maastricht del 1992): “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. Più specificamente, si fa ampio ricorso al principio di solidarietà in relazione ai problemi di politica estera: “L'azione dell'Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l'allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale” (articolo 10A, comma 1). E ancora, più esplicitamente: “[L’Unione] garantisce che non vi siano controlli sulle persone alle frontiere interne e sviluppa una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi” (articolo 61, comma 2).

Quanto emerge da queste poche righe è un’idea complessa di solidarietà. Si parla di solidarietà tra membri della “società europea”, nella quale tutti i cittadini degli stati dell’Unione sembrerebbero trovarsi accomunati. Si parla inoltre di solidarietà tra gli stessi stati membri, nel regolamento delle questioni interne all’Unione, e di solidarietà da parte dell’Unione e dei suoi singoli stati in materia di politica estera, con particolare riferimento al tema dell’immigrazione, che richiede solidarietà reciproca tra i paesi accoglienti ed equità nei confronti di immigrati e rifugiati. Non si tratta di principi astratti, ai quali sia lecito ispirarsi in senso vagamente regolativo, ma di linee guida stabilite da un trattato internazionale sottoscritto e ratificato da tutti gli stati membri dell’Unione Europea, in risposta al fallito tentativo di approdare a una vera e propria Costituzione europea.

Nonostante le premesse, l’attuale situazione internazionale mostra come tali linee guida siano state sostanzialmente disattese. Il problema delle frontiere europee, interne ed esterne, è divenuto critico, in seguito alla crisi migratoria che negli ultimi anni ha investito il continente e al conseguente tentativo di diversi paesi di smarcarsi dal fronte comune europeo, in materia di politica estera. Tra i casi più recenti, quelli di Austria e Danimarca che, nonostante le aperte condanne dei rappresentati delle maggiori istituzioni europee, hanno introdotto rispettivamente un tetto giornaliero agli ingressi dei richiedenti asilo e un “immigration bill” a carico dei nuovi arrivati, il tutto in palese violazione dei trattati UE, a partire da quello di Lisbona. Questi casi isolati testimoniano come l’Europa sia incapace di fronteggiare una delle più gravi crisi umanitarie del XXI secolo. Dal tentativo di concepire un’idea complessa di solidarietà, favorendo una sempre più estesa interazione sociale e politica all’interno e all’esterno dell’Unione, si passa al riemergere di un’idea di Europa come fortezza fragile, tanto più incapace di far fronte alla crescente criticità del teatro politico internazionale, quanto più arroccata su un’inefficace posizione difensiva.

Questa situazione scoraggiante potrebbe far pensare a una fondamentale inadeguatezza dell’idea di solidarietà in ambito politico. In altre parole, sembrerebbe che, al di là di proclami più o meno idealistici, non sia possibile promuovere una politica realmente solidale, ma che tutto ciò che è politico ricada in una logica di potere che non lascia spazio a nulla al di fuori del mero calcolo opportunistico. In particolare, un discorso basato su principi di solidarietà non sembra essere possibile quando è in gioco uno scontro autoritativo tra democrazie locali – quelle degli stati membri dell’Unione europea, che reclamano il diritto di dettare in piena indipendenza la propria politica interna ed estera – e istituzioni comunitarie, il cui funzionamento è segnato da una lacuna democratica che ne limita autorevolezza ed efficacia, agli occhi delle popolazioni locali. In altre parole, si assiste a una scontro tra popoli europei, resistenti a qualsiasi tipo di governance translazionale, e “società europea”, intesa come comunione di tutti i cittadini d’Europa, uniti da un destino comune, a fronte degli eventi tragici che il continente si trova ad attraversare.

Le conseguenze di questo ragionamento sono più pericolose di quanto non appaia. Non riuscire a concepire una solidarietà abbastanza complessa da fronteggiare le crisi del presente significa perdere quel livello minimo di umanità che permette di riconoscersi nei destini e nelle sofferenze altrui. Il filosofo ceco Karel Kosík, tentando di definire il carattere fondamentale del secolo passato, ha definito il Novecento “secolo di Grete Samsa”, riferendosi alla sorella di Gregor, protagonista della Metamorfosi di Kafka. Non è Gregor, per Kosík, il vero protagonista del libro e la figura che meglio descrive l’umanità novecentesca, ma Grete, che a fronte della mutazione del fratello in insetto, cessa immediatamente di riconoscerne l’umanità. Grete è descritta da Kafka come una giovane donna, intraprendente e in buona salute, per la quale la metamorfosi di Gregor costituisce niente più che un intralcio, da superare con un salto a piè pari, senza ripensamenti. A gettare via i poveri resti di Gregor, dopo la sua morte, non è la sorella, ma la serva di casa, con un colpo di scopa. Grete è già oltre, la sua vita non può essere scossa o interrotta: lei va per la sua strada. I primi anni del XXI non fanno che confermare l’intuizione di Kosík, mostrando un’umanità sempre più incapace di sviluppare un livello minimo di umanità, cioè quel livello che consente di riconoscere l’umanità dell’altro da sé, di chi ci si para di fronte, bisognoso di accoglienza e di cure. Nessuno è realmente escluso da questa dinamica. Al di là dei casi estremi di soggetti politici che si professano apertamente contro l’immigrazione, solitamente più per ragioni populistiche che per reale convinzione, risulta difficile a chiunque soffermarsi realmente sul problema, quando il flusso di informazioni che scaturisce da mezzi di informazione e social media porta inevitabilmente alla distrazione e alla dispersione. Storie di tragedie, di uomini e donne morti in mare, di una guerra civile che ha sterminato mezzo milione di esseri umani in Siria, dei violenti attacchi a cui è stata sottoposta, ancora una volta, la striscia di Gaza, in seguito all’Operation Protective Edge promossa da Israele nel 2014 (solo per citare alcuni eventi limitati a un preciso contesto geografico), diventano virali e vengono poi dimenticate, seguendo il ritmo biologico di un qualsiasi trending topic. Il colpo di scopa della serva di Kafka è in agguato: sorvolare e passare ad altro non è mai stato così semplice.

Per evitare questa perdita di umanità è necessario ripensare il concetto di solidarietà, tentando di riattivarlo, recuperarne l’efficiacia, a fronte di tutte queste tragedie. L’Europa in tal senso ha una responsabilità particolare. Non perché essa sia stata la patria dell’umanesimo, ma semmai per il fatto che, nel corso della storia, si è ripetutamente trovata a tradire questo stesso ideale di umanesimo e di umanità. Tale tradimento è stato denunciato, tra gli altri, da Frantz Fanon, nel 1961, al termine di un’epoca di colonialismo che dell’Europa ha fatto emergere la natura più bestiale. Ne I dannati della terra, Fanon denuncia: “Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli. Abbandoniamo quest'Europa che non la finisce di parlare dell'uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, in tutti gli angoli delle sue stesse strade, in tutti gli angoli del mondo. Sono secoli... che in nome d'una pretesa ‘avventura spirituale’ essa soffoca la quasi totalità dell'umanità”. L’Europa, per sopravvivere ai suoi stessi errori, deve ripensare la sua umanità, trovando un nuovo spazio di solidarietà in tempi di tragedia. In tal modo sarà forse possibile ritrovare i fili di quell’“avventura spirituale” che ha segnato la sua nascita, e che l’Europa stessa ha poi lasciato cadere, macchiandosi delle stesse colpe che non ha mai cessato di condannare.

In molti si sono interrogati su come ritrovare il bandolo, a partire da un ripensamento della struttura sociale e politica europea. Jürgen Habermas, che già a partire dagli anni settanta ha affrontato il problema della crisi di legittimità delle istituzioni politiche europee, è tornato di recente a scrivere sulla crisi economica e politica dell’Unione, nel tentativo di rilanciare il progetto di una Costituzione europea. Secondo Habermas, tale progetto dovrà essere imperniato su un’idea di comunità transnazionale e cosmopolita, i cui elementi costitutivi (cittadini europei, stati membri, istituzioni governative) saranno chiamati a interagire secondo nuove regole, al fine di assicurare agli organi legislativi ed esecutivi dell’Unione non solo un’autorità formalmente riconosciuta, ma anche una legittimità democratica che le popolazioni locali, fomentate dai vari movimenti anti-EU, sempre più faticano a riconoscere. Senza scendere troppo nei particolari, quello che interessa qui è capire il cambiamento a cui la posizione del singolo cittadino va incontro, in questo mutato scenario. Ammesso che il progetto di una nuova Costituzione europea, a partire da un ripensamento del rapporto dei suoi vari organi, sia concretamente realizzabile, potranno mai i cittadini europei riconoscersi in questo cambiamento e parteciparvi a tutti gli effetti? La difficoltà sta nel fatto che, se per un cittadino di un singolo stato sentimenti di responsabilità e solidarietà nei confronti del proprio contesto di appartenenza sociale sono facilmente auspicabili, lo stesso non si può dire se si porta il discorso a livello europeo. Tutti i sentimenti di riconoscimento e di appartenenza, così come la disponibilità al soccorso e alla difesa reciproca, che normalmente caratterizzano il rapporto di solidarietà che si instaura tra i membri di una comunità politica sembrano svanire quando questa comunità assume la struttura complessa e “artificiale” propria, ad esempio, dell’Unione Europea. Secondo Habermas, tuttavia, anche nel caso dell’Europa, permane ancora la speranza che “la crescente fiducia che accomuna i popoli europei dia vita a una forma transnazionale, seppur attenuata, di solidarietà sociale tra i cittadini dell’Unione” (Zur Verfassung Europas, 2011).

Al di là dei particolari tecnici che riguardano il progetto di Habermas per una ri-Costituzione europea, nei quali non mi addentro, vorrei sottolineare come anche in questo caso l’idea di solidarietà mantenga una posizione centrale. Su come sviluppare e mantenere questo livello, seppur attenuato, di solidarietà il dibattito è aperto. Non si tratta semplicemente di una questione politica, ma anche e in primo luogo etica e filosofica. Credo che una possibile risposta consista precisamente nel ripensare quel livello di “solidarietà complessa” a cui mi sono già riferito. Nel momento in cui i cittadini europei – auspicato da Habermas – saranno chiamati ad assumersi una responsabilità politica, a livello comunitario, non soltanto attraverso la mediazione istituzionale dei propri stati di appartenenza, ma direttamente, in quanto individui europei, essere solidali verso il proprio simile (amico, congiunto, concittadino, compratriota) sarà del tutto insufficiente. Perché una nuova politica europea sia immaginabile, occorrerà innanzitutto sviluppare una solidarietà tra diversi; solidarietà tra diversi individui europei, tra i quali dovrà instaurarsi una interazione efficace, finalizzata a promuovere di politiche comuni, ma anche solidarietà tra europei e altri in senso ancora più radicale, nella forma di chi si affaccia sul nostro continente, provenendo da regioni martoriate, in cerca di una terra ferma che offra accoglienza. In questa nuova predisposizione (precisamente come nella “solidarietà” di cui parlavano gli autori del Manifesto di Ventotene) non vi è nulla di caritativo o pietoso. Si tratta di una predisposizione etica, basata sull’idea paradossale per cui l’autentico rinoscimento reciproco, sulla base del quale è possibile ripensare la politica in tempi di crisi, non può avvenire tra simili (ormai ridotti a gruppi marginali e incapaci di gestire la complessità dell’attuale politica globalizzata), ma deve necessariamente essere costruito a partire da due posizioni di diversità, capaci di dialogare superando i pregiudizi.

Come si possa promuovere questo modello di solidarietà complessa è una questione che richiederà in futuro la massima attenzione. In tal senso, esistono esempi che possono fungere da guida, in vista di un risultato positivo, che appare ancora lontano. Credo che il discorso sui “Giusti”, nel senso ebraico del termine, poi ampliatosi al di là di qualsiasi divisione di fede, possa essere d’aiuto. È significativo, in tal senso, la decisione del Parlamenteo Europeo di istituire una Giornata dei Giusti, il 6 marzo. Perché tale istituzione superi tuttavia la forma di semplice celebrazione di qualcosa che è stato, è necessario ripensare meglio questo concetto. Ho parlato di solidarietà (solidarietà complessa, solidarietà in tempi di tragedia) come di quella predisposizione fondamentale che consente di non perdere di vista l’umanità dell’altro. Per tornare ancora una volta all’esempio di Kosík, se Grete Samsa rappresenta nel suo pensiero la sistematica rimozione di ciò che non è identico a se stessa, la figura di Antigone, che dedice di non abbandonare il fratello morto, nonostante la sua memoria sia stata rigettata dalla sua stessa comunità di appartenenza, rappresenta al contrario l’attaccamento all’umanità altrui, il desiderio di conservarla a ogni costo. Ebbene, credo che il Giusto possa essere compreso in questi termini; come colui, cioè, che non solo è in grado di riconoscere l’umanità di chi gli sta di fronte, ma che di tale umanità fortissimamente rifiuta l’assenza. In altre parole, ciò che il Giusto rifiuta e non accetta non è l’umanità, ma semmai l’inumanità altrui. Ciò si converte in una forma di speranza e di attesa nei confronti dell’altro, che in certi casi può apparire utopistica se non folle. La figura di Armin T. Wegner, raccontata da Gabriele Nissim nel suo lavoro più recente, rappresenta perfettamente questa posizione. Wegner scrive l’11 aprile 1933 una lettera a Hitler, con l’intento di denunciare i soprusi a cui sono sottoposti gli ebrei tedeschi. Leggendo questa lettera colpisce soprattutto la completa mancanza di retorica. Wegner scrive a Hitler perché si rifiuta di non riconoscere in lui quella stessa umanità che appartiene alle vittime della sua politica. Questo non significa, naturalmente, scagionare Hitler o ridimensionare la portata dei suoi crimini. Al contrario, rigettare la mostruosità (vale a dire, l’imponderabilità) del futuro carnefice, lo si riporta a forza sul terreno del confronto tra diversi, palesandone ancora di più, soprattutto agli occhi dei posteri, la miseria e l’orrore.

Ricordare questi casi estremi, in cui il senso di umanità non si è sgretolato neanche di fronte ai più grandi casi di violenza, può servire come punto di riferimento per quanti, molto più modestamente, senza essere all’altezza dei Giusti, si sforzano di preservare un concetto minimo di umanità, mantenendo l’ascolto e l’apertura nei confronti del diverso, al di là dei timori che esso può provocare. Imparare a praticare questa posizione etica non è solo un esercizio sprituale, ma si propone di diventare una concreta via d’uscita dalla crisi politica europea. È imparando a riconoscere l’umanità dell’altro, infatti, che si potrà delineare un tipo di solidarietà basata non su un positivo concetto di appartenenza, di condivisione, di affinità, che sempre riguarda due simili. La sfida è semmai quella di gettare basi solidali in mancanza di tutto ciò: non rinforzando i vari concetti di riconoscimento identitario, ormai del tutto inadeguati al carattere globale della società contemporanea, ma creando una solidarietà e una comunità politica in assenza di identità precise, o meglio, in presenza di tante identità, in grado di far fruttare le proprie differenze e la propria dialettica interna. Il filosofo ceco Jan Patočka, ricordato anch’egli tra i Giusti, ha parlato negli anni settanta di “solidarietà degli scossi”, proprio per indicare una possibile comunità umana tenuta insieme soltanto dalla consapevolezza di aver attraversato la stessa esperienza sconvolgente: quella delle forze totalitarie novecentesche, che hanno variamente tentato di estirpare ogni diversità, per stabilire società perfettamente omogenee (siano esse basate su principi di classe o di sangue). Questa idea complessa di comunità, costruita su principi apparentemente negativi e in assenza di un forte prinipio di identità, è oggi una sfida per tutti coloro che si propongono, in ambito filosofico e politologico, di ripensare la costituzione politica europea, oltre la crisi esistenziale che la corrode, per proseguire la sua avventura spirituale. 

Francesco Tava, Associate Professor di Filosofia presso la University of the West of England di Bristol

26 febbraio 2016

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