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Wałesa, l'uomo della speranza

di Andrzej Wajda Polonia, 2013

Locandina del film

Locandina del film

Il 4 giugno del 1989, al termine dei lunghi lavori della Tavola Rotonda tra governo ed opposizione, in Polonia si svolsero le prime elezioni parzialmente libere in un paese del blocco socialista. Da questo evento di portata storica nacque il primo governo polacco non comunista, guidato da Tadeusz Mazowiecki, e si ebbe un effetto domino, che portò alla caduta del Muro di Berlino nel novembre dello stesso anno. Le radici di quel momento affondano nelle lotte degli operai e degli intellettuali polacchi del 1956, del 1970 e del 1976, ed infine negli scioperi di Danzica del 1980 e nella conseguente nascita di Solidarność, il primo sindacato libero di un paese comunista, che arrivò a contare dieci milioni di iscritti, e che non venne soppresso neppure durante lo Stato di Guerra introdotto dal generale Jaruzelski il 13 dicembre del 1981, perché continuò a vivere in forma clandestina.

Il film Wałęsa, l’uomo della speranza, del regista polacco e premio Oscar alla carriera Andrzej Wajda, presentato al Festival del Cinema di Venezia lo scorso settembre e uscito nelle sale italiane il 6 giugno, ricostruisce quegli eventi, ma è molto più di un film storico, biografico e politico. È innanzitutto un film sulla speranza e sull’amore alla libertà insite nel cuore dell’uomo, che non vengono meno neppure quando si scontrano con i tormenti, le domande o, addirittura, le debolezze e le contraddizioni delle persone.Andrzej Wajda aveva annunciato la sua intenzione di girare un film su Lech Wałęsa già nel 2008 durante un’intervista alla televisione polacca, in cui aveva dichiarato: “Da tempo mi sto preparando a questo film. Dopo i primi due, L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, adesso dovrebbe arrivare L’uomo della speranza. Questa mi sembra una buona definizione per Lech Wałęsa, perché lui ha dato, e non solo a me, una grande speranza”. Per questo Wajda ha deciso di girare quello che lui stesso ha definito “il film più difficile che ho fatto in 55 anni di carriera”, per far sì che soprattutto i giovani avessero la possibilità di conoscerlo: “Mi piacerebbe raggiungere il pubblico più giovane, in quanto Lech Wałęsa è un buon esempio di come si può partecipare alla vita politica. Una partecipazione che vedo scarseggiare nelle nuove generazioni”, ha dichiarato ancora il regista.

Il film prende come spunto narrativo la famosa intervista che Oriana Fallaci fece al leader di Solidarność nel 1981, e che fa da contrappunto ai numerosi flash back e alla descrizione degli eventi seguenti quell’incontro. La narrazione è asciutta ed evita ogni tentazione all’esaltazione e o alla mitizzazione. E quindi, viene affrontata senza reticenze anche la controversa questione della firma che Wałęsa appose, sotto ricatto, nel 1970 in calce alla dichiarazione di lealtà al regime, quando venne arrestato per aver partecipato alle manifestazioni di piazza, mentre sua moglie partoriva il primo figlio, e i suoi compagni venivano massacrati di botte nei corridoi della Milicja.

Sono molto ben calibrati anche i materiali di repertorio e la ricostruzione cinematografica, così da rendere al meglio un personaggio sicuramente complesso e fuori dal comune, un capo carismatico insolito e di grande temperamento, dotato di un incredibile intuito politico e strategico, capace di capire al volo quando si poteva spingere oltre nelle trattative con il regime, o quando, invece, bisognava fare un passo indietro per non perdere quello che era stato ottenuto. Il regista si addentra sia nella sfera politica e pubblica, che in quella psicologica e personale del leader di Solidarność, e nel suo privato, nella sua sfera più intima e familiare per cogliere la sua progressiva trasformazione da semplice operaio–elettricista in leader di un grande movimento popolare. Wajda, inoltre, mette in luce il ruolo fondamentale svolto dalla moglie di Wałȩsa, Danuta, di cui mostra il coraggio anche nei momenti più duri, quando deve affrontare i ripetuti licenziamenti e i continui fermi di polizia subìti dal marito, o le brutali perquisizioni dei servizi di sicurezza, riuscendo allo stesso tempo a combattere contro la dura quotidianità della Polonia degli anni Ottanta, prendendosi cura dei sette figli, e sostenendo il marito nella triste e cupa esistenza della Repubblica Popolare Polacca, presentata in tutti i suoi aspetti paradossali e nelle sue assurdità: i negozi vuoti, la violenza dei manganelli della polizia, i controlli degli onnipresenti funzionari dei servizi segreti. Allo stesso modo, altre figure femminili riportano alla memoria il ruolo centrale avuto nel corso di tutta la storia polacca dalle donne, vere custodi e anima della nazione, e così nel film, accanto a Danuta, ci sono Anna Walentynowicz, l’operaia il cui licenziamento portò allo scoppio della protesta nell’agosto 1980, Henryka Krzywonos, la guidatrice di tram che paralizzò le comunicazioni a Danzica, Halina Pieńkowska, che insieme alle altre fermò gli operai che volevano tornare a casa e, soprattutto, c’è la folla di madri, mogli, sorelle, fidanzate che davanti ai cancelli dei cantieri occupati portavano cibo e conforto e, soprattutto, con i loro corpi formavano una barriera di difesa contro un possibile attacco dei carri armati.

Pur essendo incentrato soprattutto sulla figura di Wałęsa, il film presenta anche la vicenda corale del popolo polacco: l’unità, non sempre facile, creatasi tra gli intellettuali e gli studenti e i lavoratori, che ha fatto della Polonia un unicum nel panorama dei paesi dell’Europa Orientale, il ruolo svolto dalla fitta rete delle pubblicazioni clandestine, che è stata fondamentale per formare e far crescere una coscienza comune, capace di resistere allo strapotere sempre incombente, e spesso brutalmente violento, della polizia, dell’esercito e dei servizi di sicurezza. E il ruolo della Chiesa in difesa dei diritti civili ed umani, indicato dalla richiesta degli operai rinchiusi all’interno dei cantieri navali nel 1980 che fosse celebrata la Messa e dal pellegrinaggio in patria di Giovanni Paolo II nel1979, evento a cui molti fanno risalire il vero inizio degli avvenimenti seguenti. Il film di Wajda sul grande protagonista di quegli eventi, come già era accaduto con Katyn, con il film di Rafał Wieczyński su padre Popiełuszko, o con il film di Agnieszka Holland In darkness, si inserisce in un filone storiografico del recente cinema polacco che di fronte a molti, troppi, silenzi di storici e uomini di cultura europei contribuisce a non farci perdere la memoria di quanti hanno lottato per la libertà e la verità nei paesi dell’Europa Centro-Orientale.

Il 4 giugno in Polonia davanti ai capi di stato di mezzo mondo, sotto il titolo di Spegnere il sistema è stato celebrato il 25simo anniversario della caduta del comunismo. Il giorno dopo, con una coincidenza voluta, a Varsavia è stato inaugurato il Giardino Universale dei Giusti in cui sono state onorate alcune figure di coraggio civile di tutti i genocidi e di tutti i totalitarismi del XX secolo. Per l’occasione, uno dei fondatori di Solidarność e uno dei promotori del Giardino, Konstanty Gebert, ha dichiarato in un’intervista: “Chi ha visto l’89 perde per sempre il diritto morale di essere pessimista, perché quello che è accaduto allora sembrava impossibile: il comunismo che crolla senza spargere una goccia di sangue? L’Unione Sovietica che dice «scusi» e se ne va? Ma figuriamoci! Se un anno prima dell’89 qualcuno me lo avesse detto, avrei riso. Per questo, noi che l’abbiamo visto, noi che in qualche modo abbiamo pure contribuito a quegli eventi non abbiamo più il diritto di dire a qualcun altro «non funzionerà, non avete nessuna possibilità di farcela». Abbiamo partecipato a un miracolo, qualcosa che è stato realizzato da mani umane, dalle mani dei Giusti e che ci trasmette un’eredità da cui non possiamo più prescindere”.

di Annalia Guglielmi

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