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Il trionfo della metafisica

di Eduard Limonov Ed. Salani, 2013

Recensione di Silvia Golfera, scrittrice

Confesso di non nutrire simpatia per Eduard Veniaminovich Savenko in arte Limonov, e di considerarlo una sorta di versione aggiornata, e un po’ più disperata, del nostro D’Annunzio. L’attenzione che riesce a catturare è il segno di un vuoto culturale. Idee folli e semideliranti, la contraddizione come regola di vita, il gesto azzardato e eclatante, fanno sognare i tanti piccoli Limonov smaniosi di evadere da vite comuni.

Eppure il suo libro “Il trionfo della metafisica” edito da Salani nel 2013, che racconta il microcosmo di un gulag modello dei giorni nostri, svela come la Russia di oggi sia ben poco mutata da quella del passato. La stessa arroganza del potere, il sopruso e la menzogna per piegare e manipolare l’individuo, l’arbitrio che si fa legge. Legge non scritta certo, ma molto più reale e inviolabile di quella ufficiale.

Ne “Il trionfo della metafisica”, Eduard Limonov registra i mesi trascorsi nel 2003 nella colonia penale n° 13 nelle steppe della regione di Saratov, che nel 1773 fu teatro della rivolta di Pugačev, disertore, contadino, impostore, sanguinario, profeta, insomma uomo dalle mille identità, con cui l’autore si identifica.

La colonia penale n° 13, collocata “nelle steppe dell’Oltrevolga, battute dal vento e arroventate dal sole…su uno squallido terreno sabbioso circondato dai grigi edifici delle fabbriche …e da roseti spezzati”, viene esibita come “il campo delle meraviglie” fiore all’occhiello del sistema carcerario post sovietico, spesso visitato da commissioni internazionali.

A popolarlo tuttavia gli stessi “zek”, reietti e piegati, che ci hanno raccontato Šalamov, Solženicyn, Herling…. Uomini feroci o innocenti, depravati o indifesi, sottoposti all’umiliazione e alla tortura in un inferno senza legge, se non quella dell’arbitrio.
Premesso che il carcere è ovunque un luogo di dolore e violenza che nessuna società è riuscita a eliminare, esso finisce tuttavia con lo svelare l’essenza stessa del Paese, la nuda realtà sociale che il potere cerca a volte di mascherare.

Nel gulag delle meraviglie di Saratov vige lo stesso stile concentrazionario dei campi nazisti e sovietici.
La stessa violenza del risveglio mattutino: “scattavamo in piedi alle 5,45 al grido selvaggio –Sveglia! Rotti in culo” e di corsa a sistemare geometricamente il pagliericcio e rifarlo, sempre più svelti, per qualche imperfezione. Come non ricordare la sveglia di Primo Levi ad Auschwitz, quando prima dell’alba, nel tanfo della camerata risuona la condanna di ogni giorno “Aufstehen, - o più spesso, in polacco - Wstawac” o quella di Ivan Denisovic, quando alle cinque della mattina il martello batte contro un pezzo di rotaia che pende davanti alla baracca dei comandanti.

Anche qui vige la stessa mania classificatoria: “Sul petto…un’etichetta rossa significa ‘incline all’evasione’. L’etichetta gialla sta per ‘tossico’, quella verde…’incline alla violenza e alle provocazioni’”. I medesimi riti dell’umiliazione: “Alle docce, noi nudi accovacciati, i sorveglianti vestiti, sulle sedie. Umiliante come ad Auschwitz”, o i gabinetti lavati a mani nude, chini sui buglioli, le botte, somministrate in stanze segrete, che hanno reso zoppo il povero Jurka Karlaš, condannato a scontare una pena per omicidio, perché incappato per caso nell’ingranaggio giudiziario, più esposto di altri per la passione del rock, per gli atteggiamenti punk, per l’origine ungherese. Del resto il ‘severo rigore’ della giustizia russa prevede che a ogni crimine corrisponda immancabilmente un colpevole, e non importa che sia innocente.

Perché “in Russia il potere mente in modo smisurato e con disinvoltura. In realtà siamo un paese orrendo. Uno stato bigotto e una chiesa asservita da far vomitare ci sono valsi il nomignolo di ‘Santa Rus’. Sarebbe più azzeccato quello di ‘Satanica Rus’” commenta Limonov.

Eppure gli osservatori internazionali non vedono dietro l’organizzazione il sangue e le sofferenze dei detenuti. Ma “i russi hanno sempre saputo fregare lo straniero, Potemkin e i suoi villaggi di cartapesta avevano ingannato la tedesca Caterina, i bolscevichi lo avevano fatto con gli intellettuali europei…Se non mi dai il pane da mangiare, almeno lo straniero fammi fregare”.

Non c’è poesia, e neppure illusione nel racconto di Limonov. Anche se si avverte al fondo una sostanziale adesione al mondo che racconta. È come se, per dare giustificazione a tanta sofferenza, dovesse farla confluire in un disegno, in un destino che accomuna tutti. Ecco allora il salto nella metafisica, la mistica russa, a compensazione di una ‘fisica’ che non lascia scampo: “…la sofferenza purifica, e…le condizioni in cui vivevamo…erano le migliori per l’esistenza dello spirito…Lì era stato raggiunto il pieno trionfo della metafisica…Serve solo a me, questo trionfo della metafisica”.

Forse per questo l’autore non avverte alcuno scarto fra lo scrivere un libro di denuncia e  l’imperversare sulla televisione russa per rivendicare un intervento armato in Ucraina, per rifare della Russia un grande impero dell’Est. Ma questo è Eduard Veniaminovich Savenko, in arte Limonov.

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