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Il caso Meursault

di Kamel Daoud Bompiani, Milano, 2015

In molti ripetiamo spesso luoghi comuni: “L’Italia è un Paese cattolico. L’Algeria, un Paese musulmano”. Se hanno il merito di ricordarci alcune tradizioni di grande valore, queste prese di posizione hanno alcuni difetti. Quello più grave è che dimenticano i percorsi di molte persone che si interrogano sul dolore espresso dalle pietre, in ogni Paese – non ce n’è infatti uno esente almeno storicamente dalla violenza e dal fanatismo – e magari cercano di tramandare una possibilità di pace, di sfida personale alle tradizioni, di tolleranza. 

Per questo, quando ho letto Il caso Meursault di Kamel Daoud (edizioni RCS- Bompiani) ho ringraziato la bonarietà dell’autore. Lo scrittore, algerino di Orano, ha voluto redigere la contro-inchiesta del caso di omicidio narrato da Albert Camus ne “Lo straniero”, che oggi è presente in libreria accompagnato da una bella prefazione di Roberto Saviano. 

Daoud fa pronunciare al suo protagonista, Haroun, fratello della vittima, Moussa (i nomi sono gli equivalenti islamici di quelli dei personaggi biblici Aronne e Mosè) alcune frasi improntate proprio a questo disincanto verso realtà così permeate dalla religione da apparire quasi apatiche e noiose. “Il venerdì non è il giorno in cui Dio si è riposato, è il giorno in cui ha deciso di scappare per non tornare mai più. Lo capisco dal suono vuoto che persiste dopo la preghiera degli uomini, dai loro volti incollati al vetro della supplica. E dal colorito di chi risponde con lo zelo alla paura dell’assurdo. Quanto a me, non amo ciò che si innalza verso il cielo, ma solo ciò che è immerso nella gravità. Mi azzardo a dirti che detesto le religioni. Tutte! Perché truccano il peso del mondo”. 

E Kamel Daoud nei panni di Haroun, condannato a ricercare il fratello, anzi a riviverlo, anche dal proprio rapporto claustrofobico con la madre, continua descrivendo come il giorno sacro all’Islam sia quasi un alibi per poltrire tutto il giorno vestiti della tradizionale tunica araba (la galabeya), un inno alla “sciatteria”. Queste parole stanno costando molti problemi allo scrittore algerino, un quarantacinquenne che tuttavia riesce a immedesimarsi in un personaggio che aveva 27 anni nel 1962 – quasi come se guardasse indietro e non avanti, il che forse è un limite di questo autore, pur geniale. In realtà possono sembrare le parole di un vecchio zio o padre ateo, di un amico che cerca di metterci in guardia su qualche lato oscuro della religione. Non dovrebbero costare minacce di morte a chi le pronuncia o scrive.

Il libro ha più livelli di lettura: il primo è per l’appunto la controinchiesta a un celebre caso letterario di omicidio, in cui si venne a sapere tutto dell’assassino francese, ma non della vittima araba, nominata nel libro di Camus per ben 25 volte, ma solo e sempre come “l’arabo”. Il sapore del libro non è tuttavia quello di una rivendicazione post-coloniale: è un libro che non fa sconti a nessuna epoca assetata di sangue, a nessuna meschinità, a nessun compiacimento né verso lo sfruttamento, né verso la violenza. 

Un altro aspetto del libro è la sperimentazione letteraria, resa magistralmente anche dall'impeccabile traduzione di Yasmina Mélaouah, grazie alla quale sembra di leggere direttamente in francese. Alcune pagine, particolarmente quelle 77-82, che descrivono come Haroun e la madre “vendichino” il congiunto ucciso ammazzando a loro volta un francese, sono di particolari intensità e drammaticità. Nel complesso “Il caso Meursault” sembra essere il manifesto della vocazione di uno scrittore, che può nascere come Daoud in una città qualunque di un sonnacchioso Paese arabo, “tra Allah e la noia”, come dice lui stesso, per reclamare giustizia per un omicidio, ma poi trova il suo posto nella letteratura, un po’ fuori dalla cronaca, dall'attualità e dalle polemiche politiche o religiose. 

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