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Voci del verbo andare

di Jenny Erpenbeck Sellerio, 2016, Palermo

Richard, professore universitario di filologia classica, ex tedesco orientale, vedovo senza figli, è una persona metodica, abitudinaria, refrattaria a qualsiasi cambiamento. È riuscito a passare indenne attraverso il processo di riunificazione delle due Germanie, e affronta il pensionamento con la medesima attenzione per la salvaguardia delle proprie radicate abitudini: stessi orari, stessi percorsi, stesse letture, stessi amici. Nemmeno la presenza di un cadavere sul fondo del lago vicino a casa, che ne tiene lontani i bagnanti locali, sembra toccarlo.

La sua mente è talmente focalizzata sui soliti pensieri e interessi, che quando si trova per caso ad attraversare una piazza di Berlino dove è in corso una protesta di centinaia di profughi lì accampati, non si accorge nemmeno della loro presenza: viene a saperlo solo dal telegiornale.

Il cartello esposto dai manifestanti, con la scritta “We become visible” fa scattare in lui la curiosità: chi sono quelle persone-fantasma?

Così, il professore solitario, che sembra e forse si sente egli stesso un fantasma, decide di approfondire il tema dei profughi con la metodologia tipica del ricercatore: si documenta, legge delibere e normative, prepara una lista di domande da sottoporre ai diretti interessati.

L’incontro con i profughi produce una sorta di sconvolgimento nell’ordine costituito del professore, in cui gli eventi esterni si inserivano come riflessi del suo pensiero: assistiamo alla contrapposizione delle sicurezze dell’uno e della precarietà degli altri, persone che sono passate bruscamente dalla vita quotidiana occupata e prevedibile, come un tunnel con un’unica uscita, a una vita sospesa, aperta in tutte le direzioni.

Le certezze del professore e la banalità delle sue domande accuratamente preparate si scontrano in un contrasto stridente con la cruda realtà dei profughi, le guerre da cui fuggono, le traversate in mare, i naufragi, gli spostamenti da un paese all’altro, le maglie della burocrazia. Ognuno ha la propria vita da raccontare, e ognuno la racconta volentieri al professore, perché egli ascolta con attenzione, e l’ascolto e l’attenzione che dedica permette a ogni profugo di riappropriarsi del proprio passato e della propria individualità, di uscire dall’anonimato in cui la burocrazia e il trattato Dublino II li rinchiude.

Infatti, quando lo Stato si fa carico dei profughi, si occupa in realtà di competenze territoriali e divieti, non della vita delle persone: la legge trasferisce i confini dalla dimensione fisica, chiara e netta, a quella linguistica, oscura e tortuosa. Il professore analizza i documenti statali sui profughi, rendendosi conto di quanto siano precisi riguardo gli smantellamenti e quanto invece siano vaghi sul futuro di queste persone.

Ma se il futuro dei profughi è vago e indefinito, il loro presente nel centro d’accoglienza è vuoto e sospeso nel limbo di un’attesa altrettanto indefinita: le giornate si susseguono vuote, cadenzate solo da qualche lezione di lingua tedesca. Le visite del professore, sempre più frequenti, diversificano le giornate dell’uno e degli altri: liberano Richard dalla ripetitività della sua routine e lo portano a prendere consapevolezza che esiste un mondo altro fuori dai suoi confini e certezze, fino a portarlo a instaurare nuovi rapporti di amicizia e collaborazioni finora impensabili; riempiono di contenuti il tempo dei migranti, restituendo loro identità e dignità.

Romanzo dal ritmo piuttosto lento, a sottolineare ripetitività e attesa, riesce a scavare nel profondo di un fenomeno sociale travolgente da diversi punti di vista: economico, politico, antropologico ma soprattutto umano, in modo chiaro e onesto, senza falsi pietismi e astrazioni ideologiche.

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