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Una giovinezza nel ghetto di Varsavia

di Alina Margolis Edelman Giuntina, 2014

Alina Margolis-Edelman è stata protagonista assoluta di una delle vicende più tragiche della Storia. Ha subito la persecuzione antiebraica prima e durante l’occupazione nazista della Polonia; ha assistito impotente alla liquidazione del ghetto di Varsavia dopo essere riuscita a mettersi in salvo nascondendosi nella parte ariana; ha aderito al fronte clandestino con cui ha partecipato all’insurrezione della città nell’agosto del 1944, portando in salvo – tra l’altro – con una rischiosissima “missione sanitaria” targata Croce Rossa, alcuni combattenti rimasti intrappolati, nascosti tra le macerie e ormai braccati dai tedeschi. Tra loro il suo futuro marito, il mitico vicecomandante dell’insurrezione dell’anno precedente nel ghetto, Marek Edelman.
Alina ci descrive un mondo che non c’è più e i suoi ricordi si rincorrono tra l’infanzia e l’adolescenza felice a Lodz – nonostante la scarsa presenza dei genitori, molto occupati e distratti, e una sensazione di messa la bando da parte dei polacchi, di cui non riusciva ad afferrare le ragioni – e il brusco risveglio a una tragica realtà con l’occupazione nazista del ’39, il trasferimento a Varsavia, la morte del padre fucilato dai tedeschi, la solitudine nel ghetto, accanto alla madre – medico pediatra - che si è sempre spesa per cercare di far sopravvivere i due figli nell’inferno della Shoah. Un incubo che attraversa il libro senza mai prevalere sulla narrazione, asciutta e distaccata, eppure efficacissima nella sua presa di distanza dalla “materia” che descrive perfino con ironia. Si intuisce la disperazione sotterranea di una donna fortissima, mai doma, che non si è lasciata piegare dagli eventi e dai lutti, che ha combattuto con tutte le sue forze per ritrovare un filo conduttore, un senso da dare alla vita, un modo per andare “oltre”.

Alina sceglie di descrivere le persone e lo fa in brevi capitoli che ci restituiscono pezzetti di vita, siparietti a volte persino lievi, comunque mai insistiti, da cui emerge, anzi irrompe, la crudezza di una realtà insostenibile, inimmaginabile. Ci assesta continuamente violenti pugni nello stomaco, di cui non ci rendiamo conto subito, distratti dai particolari che abilmente sono disseminati sul nostro percorso di lettura, quasi a scusarsi dei ricordi, di ciò che sta per arrivare nelle righe successive. Apparentemente si ferma sempre un passo al di qua dell’orrore, non indulge nella sua descrizione, eppure il suo modo di farcelo intuire è più forte di qualsiasi dettagliata esposizione.
 
Sono quasi esclusivamente figure femminili le protagoniste di questi quadretti narrativi. Amiche dell’autrice, parenti, compagne di scuola o di quel corso per infermiere che – nonostante tutto – resiste paradossalmente nel ghetto, un’istituzione che sembra intramontabile, anche se è scontato che alla fine verrà spazzata via, come tutto il resto. Donne straordinarie, coraggiose e volitive, a cominciare dalla madre, donne vittime destinate a soccombere, impazzite dal dolore, donne meschine e donne luminose. Si mescolano nel racconto debolezze e grandi slanci, salvezza e perdizione, sopravvivenza e morte nelle camere a gas. E poi i bambini, gli innocenti per definizione, anch’essi inghiottiti nella giostra senza senso di un destino crudele.
Alina sembra volerci suggerire che non esiste una spiegazione razionale di ciò che avviene a noi e intorno a noi, ma solo tanti fili intrecciati di una trama sconosciuta, tasselli di un puzzle la cui interezza non ci viene mai restituita. L’unica cosa di cui dobbiamo essere consapevoli è la volontà indomita di vivere, dove questa parola acquista senso solo se è coniugata al seguito: “con gli altri”.
Di una cosa la moglie di Edelman è sicura: quello che è successo a loro, in quel luogo e in quel tempo, li ha resi per sempre “diversi”. L’ultima frase del libro è una domanda che incontriamo più volte nel corso della lettura e a cui il libro stesso è già la risposta: “Qualcuno di noi è rimasto in Polonia, altri sono partiti. E in apparenza le cose ci vanno come potrebbero andare a chiunque altro. Ma noi siamo veramente come tutti gli altri?”.

Dopo la guerra Alina studia medicina e diventa pediatra, come la madre. Si spende ovunque per salvare bambini, e dice di farlo solo per se stessa, per salvarsi la vita. Sulla sua tomba è scritto: “Alina Margolis Edelman (1922 – 2008), pediatra del mondo”.

Ulianova Radice, già direttrice e cofondatrice di Gariwo

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