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Capire il significato del vivere separati

le parole di ​Simon Micael Schama

Simon Micael Schama (Londra 1945), professore alla Columbia University, è uno dei più grandi storici viventi. Come ci ricorda Francesco Cataluccio, "i suoi libri spaziano dalla storia sociale dell' Olanda del XVII secolo, ai rapporti tra paesaggio e memoria, alla rivoluzione francese, a originali interpretazioni di quadri. Il 29 marzo 2016, a Venezia, prima del concerto di Gustav Mahler, ha tenuto una prolusione sui 500 anni del Ghetto, di grande bellezza, profondità e saggezza. Vale davvero la pena leggerla, come modello di racconto e riflessione sulla Storia". Di seguito il testo dell'intervento

La Storia non è sempre un viaggio nella memoria. A volte un evento che pensiamo di esserci lasciati alle spalle in una particolare epoca o in un particolare luogo – per esempio questa città, il 29 marzo 1516, il decreto del senato che confina gli ebrei nell’insula del ghetto nuovo, questo momento preciso, molla gli ormeggi che lo legano a mezzo millennio fa e va a schiantarsi contro il nostro presente a rischio, dove ci trova immersi in una riflessione urgente e inevitabile sul che cosa significhi condividere, o non condividere, lo spazio urbano: viverci insieme o viverci separati?

E poi ci rendiamo conto, ancora una volta, che non sempre la storia si comporta nel modo ordinato richiesto dai professori, non sempre è disposta a lasciar trasporre ordinatamente il proprio caos nella sequenza di pagine di un libro, gli eventi obbedientemente in fila uno dopo l’altro. Se c’è una cosa che dovremmo avere capito del nostro tempo, è che fenomeni dissociati, all’apparenza lontani secoli l’uno dall’altro, posso coesistere simultaneamente, adattandosi l’uno all’altro, nutrendosi l’uno dell’altro. Internet può resuscitare dalla tomba ideologie zombie come il califfato o i “crociati”, annullando la differenza tra fatto e finzione, riportandole in vita armate fino ai denti, ad uso del mondo moderno. Proprio come la stampa dotò l’alchimia di un pubblico di lettori, così la rete è al tempo stesso fattuale e immaginifica, globale del punto di vista tecnico ma tribale da quello culturale. Agli occhi degli storici autenticamente contemporanei un universo Einsteiniano fatto di tempo ricurvo appare molto più credibile di un traiettoria seriale che trascina irreversibilmente l’umanità dal primitivismo verso il progresso. A mio parere la modernizzazione di antiche barbarie, l’idea che il ghetto sia qualcosa che ci appartiene adesso tanto quanto ci apparteneva cinquecento anni fa sarebbe inevitabile anche a prescindere dalla recente strage di Bruxelles: una cosmopoli eterogenea e mercantile proprio come la Venezia cinquecentesca – operando la sua distruzione proprio nei luoghi dove le persone si recano per muoversi per l’organismo libero della città, tra partenze e arrivi uniti dall’innocente certezza di un esito. Che cosa c’è al cuore di questo orrore, infatti, se non la possibilità, o l’impossibilità, della coabitazione; la condivisione dello spazio urbano da parte di comunità dissimili per credo, lingua, usanze, gruppi devoti più che ad ogni altra cosa alla eterogeneità del quotidiano, alla lotta al tribalismo, al principio di condividere il territorio senza paranoie, senza la necessità di suonare le campane, serrare i cancelli, chiudere a chiave il ghetto quando il sole cala sulla laguna.

Perdonate questo sospirare ebraico, mentre siamo immersi nella consolatoria bellezza della Fenice, ma dopo tutto, signore e signori, che tipo di commemorazione è quella di stasera? Il compiacimento collettivo non sembra proprio la cosa giusta, non trovate? A meno che noi non vogliamo compiacentemente dare per scontato che ciò che avvenne nel 1516 non potrebbe mai accadere oggi. Ma è così? (Giusto l’altro giorno uno dei candidati repubblicani alla nomina di Presidente degli Stati Uniti, Ted Cruz, ha reagito alle notizie provenienti da Bruxelles raccomandando pattugliamenti e sorveglianza della polizia nei quartieri musulmani delle città americane fino a, per usare le sua parole, “metterle in sicurezza”, neanche fosse un ufficiale dell’esercito che parla di Falujah. Quelle pattuglie che cosa dovrebbero controllare? Che la lunghezza delle barbe non superi pericolosamente il limite consigliato?)
È evidente: non siamo qui a celebrare un decreto che descrive gli ebrei come gente capace “di molte cose detestabili, a gravissima offesa di Dio e contro l’onore della Repubblica Veneziana”, e reputò necessario il relegarli in una piccola insula urbana affinché di notte non potessero seminare zizzania o contagi nella città cristiana. Eppure, come è stato detto infinite volte, per gli standard delle calamità ebraiche non si trattò di una totale catastrofe, giusto il solito ripasso della deumanizzazione: distintivi e berrette per distinguere gli ebrei, divieto di possedere immobili o assumere servitù cristiana, il divieto (nei primi decenni) di erigere sinagoghe o di professare apertamente cerimonie e festività, la routine quotidiana della chiusura e dell’apertura di ponti e cancelli come in un carcere a cielo aperto.
Non potrebbe esserci un giudizio storico più ebraico (da accompagnare con una scrollata di spalle) di: “poteva andare peggio”. Il ghetto di Venezia era pensato in modo da far stare gli ebrei al loro posto, in tutti i sensi, ma a quella consapevolezza in teoria doveva accompagnarsi anche un elemento di continuità, persino di stabilità. Dopo il 1538 fu possibile costruire delle sinagoghe, seppure molto modeste, ma tutte le condotte continuarono a dover essere rinnovate, sotto la minaccia di espulsione.

“Poteva andare peggio ” e andò peggio nella Roma di Giulio III, dove il Talmud fu condannato e bruciato – un autodafé al quale non sfuggirono nemmeno le stamperie veneziane. E fu ancora peggio sotto il pontificato di Paolo IV, quando gli ebrei di Roma, una comunità naturalmente più antica di quella cristiana, furono sradicati da Trastevere e cacciati di là del ponte inizialmente in una unica strada a loro assegnata, nella zona fangosa e spesso allagata oltre che insalubre, addossata all’argine tiberino. La mostruosa bolla Cum Nimis Absurdum, promulgata nel 1555 durante le prime settimane di pontificato di Paolo IV, riaccese l’antico terrore espresso da Giovanni Crisostomo ad Antiochia nel IV secolo e poi riesumato dal Concilio Laterano IV nel 1215 da Innocenzo III: quello di una qualsiasi commistione fisica tra ebrei e cristiani, con gli ebrei che si aggiravano nei quartieri dei cristiani, sui loro luoghi di lavoro e persino, in veste di dottori, nelle loro case, tra i loro corpi. Eredi, collettivamente e per tutta l’eternità, della colpa derivante dal crimine commesso contro il Salvatore, essi dovevano essere per sempre degradati e visibilmente stigmatizzati, a loro doveva essere impedito di ammorbare moralmente e sessualmente la popolazione… da qui la necessità di renderli pubblicamente riconoscibili per mezzo di quei distintivi e di quelle berrette, preferibilmente dello stesso colore utilizzato per marcare le professioni infamanti come la prostituzione. Paolo IV tentò persino di proibire che medici ebrei curassero pazienti cristiani, ma l’iniziativa ebbe scarso successo persino nella peggiore morsa controriformistica. Nell’elenco delle umiliazioni veneziane non c’è nulla di paragonabile alle gare di ebrei disputate, dall’epoca di Papa Paolo II nel 1466 fino a quella di Clemente IX due secoli dopo, durante il carnevale romano: gare durante le quali nel freddo e nel fango di febbraio si costringevano otto ebrei a correre seminudi, per il divertimento della folla che li ricopriva di insulti e frutta marcia, dopo averli ingozzati a forza prima della gara affinché scivolassero e vomitassero durante il percorso.
Poteva decisamente andare peggio.

Il ghetto di Venezia non fu sotto l’egida del fanatismo o della paranoia, ma fu il risultato di un lucido pragmatismo – il modus operandi caratteristico della Repubblica. C’era bisogno degli ebrei per far funzionare i banchi di pegno e per gestire l’ondata crescente di poveri prodotta alla guerra della Lega di Cambrai. Gli ebrei vivevano già in terraferma e nello Stato da Mar, venendo a Venezia per brevi periodi senza però potersi avvicinare, come residenti, oltre Mestre. Dopo Cambrai si rese necessaria una maggiore continuità, purché gli ebrei concedessero prestiti ai cristiani; nacque da qui la volontà, nel 1516, di concedere loro la residenza per un certo numero di anni (inizialmente 5,) rinegoziabili, e sottoponendoli a regole severe, tra cui l’isolamento urbano, su quello che era stato un tempo il terreno di risulta dell’antica fonderia di rame, poi un’area di baracche di pescatori, poi di casupole di tessitori, poi una zona di speculazione edilizia e infine un ghetto chiuso da cancelli.
Come tutti gli storici hanno osservato, tuttavia, si trattò di un isolamento socialmente e culturalmente poroso. Di giorno alcuni ebrei uscivano per esercitare le professioni di medico, maestro di danza o musicista, mentre i cristiani entravano come artigiani, facchini o domestici (nonostante il divieto). In alcuni periodi specifici dell’anno – Purim con gli spettacoli del purimshpiel, o la musica e le danze di Simchat Torah – lo spazio del Ghetto si affollava di visitatori cristiani. Esistevano persino normali imprese culturali. Dopo l’interdizione papale che vietava agli ebrei di stampare i propri libri sacri in ebraico, stampatori cristiani come Daniel Bomberg (il quale già nel 1516 aveva stampato il Mikraot Gedolot, un’autorevole edizione della Bibbia in ebraico con relativi commentari rabbinici) presero in mano la pubblicazione dei libri del Talmud. Anche alcune delle più grandi dinastie patrizie della città – i Giustinian e ancora di più i Bragadin – divennero editori di libri ebraici dotti e sacri. Prima della Controriforma, durante il periodo dei papi umanisti, si era creata una naturale convergenza tra l’interesse dei cristiani per l’ebraico e la volontà di rabbini ed eruditi ebrei di impartirlo (consci, questi ultimi, del fatto che l’entusiasmo cattolico altro non era se non un prolungamento del loro anelito di conversione). L’amicizia più sorprendente fu quella tra il Cardinale Egidio Antonini di Viterbo ed Elia Levita Bahur, saggio kabbalista e autore Yiddish di Bovo Bukh: dopo che gli ebbero distrutto la biblioteca, Bahur ricevette l’invito a trasferirsi con la famiglia nel palazzo del cardinale – cosa che fece, abitandoci per oltre un decennio. Quando il Sacco di Roma pose fine a quella straordinaria coabitazione, Elia Levita Bahur si trasferì nuovamente e Venezia, dove continuò la sua attività di insegnante di ebraico fuori e dentro il ghetto, e di correttore di bozze. Egli contribuì all’esodo dell’epoca portando a Venezia coloro ai quali una ferocia sempre più inquisitoriale rendeva difficile rimanere a Roma.

Chissà quanti, in quei primi decenni, vissero una vita dentro-e-fuori-del Ghetto. Uno di loro fu certamente il pittore e illustratore biblico Mosè da Castellazzo, specializzato nell’illustrare variazioni midrashiche di temi biblici, molte delle quali rivolte in particolare ai Marrani che riabbracciavano la religione ebraica. Quando Mosé da Castellazzo scelse di illustrare la guarigione di Abramo dopo la sua auto-circoncisione anziché episodi più scontati come il sacrificio di Isacco o l’Annunciazione, lo fece senza dubbio perché sapeva che ciò avrebbe suscitato dolorose immedesimazioni da parte dei conversos, circoncisi anch’essi da adulti. Anche la Torre di Babele di Mosé da Cortellazzo riporta scene tratte pari pari da Venezia, con i muratori che issano pile di mattoni con le carrucole nel cantiere di un campanile molto veneziano. Mosé svolgeva anche un’altra attività come ritrattista incisore di medaglie per i nobili, la quale lo avrà certamente condotto fuori dei confini del ghetto. Era in buoni rapporti con i nobili e con il grande banchiere Meshullam, e questo spiega almeno in parte perché la sua difesa del falso principe delle Tribù Perdute, David Reuveni, nel 1523 poté trovare tanto credito nella comunità ebraica con tendenze messianiche.
Quindi, sì: poteva andare peggio. E forse la nostra commemorazione dovrebbe misurare i pesi contrapposti, il grado relativo di dolore e di sollievo, libertà e confinamento, paura e gioia.
Così la pensava una delle più celebri personificazioni della personalità culturalmente variegata del ghetto di Venezia: il rabbino Leon Modena. La sua autobiografia, la prima nel suo genere scritta da un ebreo, è intrisa di tsuris, e la lamentazione comincia dall’inizio, con la sua nascita podalica subito dopo un terremoto. Leone si paragona a un nuovo Giobbe e per la verità i motivi non gli mancano: gli morirono due figli, uno soffocato dai fumi tossici durante un esperimento alchemico di cui il padre si sentì responsabile, praticando anch’egli quelle arti (oltre a realizzare e vendere amuleti), un secondo figlio, Zevulon, dalla voce angelica, fu assassinato davanti agli occhi del padre da alcuni giovinastri, un terzo figlio visse quasi continuamente in esilio. La cugina che Leone avrebbe voluto sposare morì prima di raggiungere la chuppah, la sorella di lei che invece Leone sposò divenne pazza e anche prima gli rese la vita difficile con la sua lingua affilata. Chissà, lui qualche volte se lo sarà pure meritato, essendo un giocatore incallito e incorreggibile pur avendo pubblicato i suoi consigli contro la febbre del gioco d’azzardo.

Eppure, alla fine, Leon Modena aggiunge peso al versante delle cose liete, almeno per un aspetto cruciale: quello della musica. Quando, nel 1605, a Ferrara (città che ancora non aveva un ghetto) si tentò di introdurre “l’arte della musica” – muzika – nelle sinagoghe dove fino a quel momento era ammesso solo il canto monodico, la proposta fu accolta con sdegno. Pur non essendo ancora rabbino, Leone aveva scritto un responso che giustificava la vera “musika” asserendo che la Bibbia ci parla della sua importanza sia nel santuario sia nel Tempio; la passione musicale di re David il salmista. La tradizione rabbinica, nel solco del Salmo 137, “Come avremmo noi cantate le canzoni del Signore in paese di stranieri?” aveva proibito la musica decretandola non consona dopo la distruzione del Tempio. Ma, come Leone osservò, c’erano eccezioni gioiose: Purim, Simchat Torah e, fuori della sinagoga, nelle case private durante le feste di matrimonio.
Nella sua campagna – perché questo divenne, alla fine – per introdurre le canzoni nelle scole veneziane dove ogni giorno era chazan nella sinagoga italiana – Leone ebbe due alleati formidabili: il ricco mecenate Moshé Sullam e, in modo più strumentale (in tutti i sensi), il compositore e musicista di corte dei duchi di Mantova Salomone Rossi. Salomone Ebreo, come era conosciuto a Mantova, fu come tutti sapete il primo a introdurre lo stile polifonico nella salmodia ebraica – la raccolta che Leone lo convinse a intitolare Shirim shel Schlomo , I Canti di Salomone, omaggiava nel titolo il compositore e al tempo si riallacciava al precedente storico del Primo Tempio. Fu Leone a organizzare la pubblicazione dei canti a Venezia, fu lui a prendere la difficile decisione di stamparne i testi ebraici al contrario in modo da renderli compatibili con il verso della notazione musicale e che scrisse per essi una prefazione meravigliosamente tranchant in cui asseriva che “nessuno con un cervello nella testa potrebbe mai obiettare a che si cantino con canzoni le lodi del Signore in sinagoga.”
Se Leone fosse riuscito a introdurre la musika di Rossi nelle scole non lo sappiamo con certezza, ma sappiamo che nel 1628 egli fondò una accademia musicale nel ghetto, dove lavorarono tra gli altri alcuni musicisti fuggiti dal regime inquisitoriale mantovano che si esibivano due volte la settimana. Appare dunque molto probabile che la Canzone di Salomone venisse eseguita per un certo periodo, prima che la Peste si abbattesse su Venezia ottenebrando numerose fonti di gioia.

Quel che più conta, i musicisti ebrei erano immersi nel mondo, e non solo nell’angolo di mondo che era il ghetto. Mai era stato possibile reprimerli. Banchieri, proprietari dei banchi di pegno, venditori di stracci e dottori non erano gli unici ebrei richiesti nel mondo dei gentili: in Italia in particolare, c’era sempre stata grande richiesta di musicisti, attori, intrattenitori e maestri di danza ebrei. A Mantova il grande Leone di Sommi scriveva drammi per i Gonzaga oltre che per la propria comunità, e Isacco Masserano, maestro di balletto e coreografo, escogitava gli elaborati intermezzi per quegli spettacoli. Lo stesso Leone Modena aveva qualcosa dello showman. Da bambino aveva appreso l’arte della retorica classica e la impiegò consapevolmente nei suoi sermoni in italiano, i quali divennero una tappa obbligatoria per i cristiani in visita al ghetto. Fu questo genere di notorietà, che travalicava i ponti e i cancelli del ghetto, a portare Leone in contatto con l’ambasciatore inglese Henry Wootton. Potrebbe essere stato Wootton a suggerire a Leone di scrivere il suo De ritii ebraici, una descrizione degli usi e costumi ebraici a beneficio di re Giacomo I. Quando il libro uscì in francese senza il consenso dell’autore nel 1637, Leone temette di finire nelle carceri dell’Inquisizione. Ma il libro resistette, accanto a quello di Simone Luzzatto, come il primo tentativo di liberare il mondo cristiano dalla perenne paranoia associata alla vita e alla cultura degli ebrei.
La lapide di Leone la potete trovare al cimitero del Lido, salvata dall’incuria in cui era caduta. Leone morì nel 1649, senza un soldo e pieno di afflizioni e angosce – come avrebbe potuto essere altrimenti? Ma io credo che alla fine anch’egli avrebbe detto, a proposito della vita appena vissuta e di ciò che essa rappresentava, in quanto capace di trascendere la segregazione del ghetto senza abbandonare il suo giudaismo essenziale, “poteva andare peggio.”
E se il suo spettro avesse potuto sussurrare nell’orecchio di Gustav Mahler – di cui stiamo per sentire una sinfonia piena di melodie ebraiche – nel momento in cui Mahler decise che convertirsi al cristianesimo con l’idea che la conversione valesse una carriera come musicista, noi siamo tutti sicuri – non è così? – che a quel giovane avrebbe detto: “Non farlo”. Amen, a quello, al ricordo di entrambi e a tutti gli ebrei del ghetto di Venezia.

1 aprile 2016

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