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Alganesh Fessaha

di Luciano Scalettari

Alganesh Fessaha

Alganesh Fessaha

Pubblichiamo di seguito l'introduzione al libro di Alganesh Fessaha "Occhi nel deserto" (Edizioni SUI) scritta da Luciano Scalettari, inviato di Famiglia Cristiana che segue da tempo il continente africano

Ci sono persone che non riescono a tollerare l'ingiustizia. Proprio non ce la fanno ad accettarla. Di fronte al sopruso, di fronte alla persona vulnerabile che lo subisce, non riescono a non reagire. Si mettono in gioco, l'ingiustizia la devono combattere. In questi miei 25 e più anni di giornalismo mi è capitato qualche volta di incontrare persone che appartengono a questa particolare categoria: di fronte alla sofferenza provocata da quell'abuso subìto si mobilitano per lenirla, per fare qualcosa che faccia cessare l'angheria.

Alganesh Fessaha è una di queste persone. Sembra proprio che non possa farne a meno. Con lei ho viaggiato, ho discusso, ha parlato decine di volte. Non esprime mai rabbia, ribellione, aggressività verso la tale o tal altra situazione di ingiustizia. Mai. Eppure è sempre estremamente determinata. Pacata ma determinata. Forse appartiene al dna del popolo a cui appartengono le sue radici: tenace fino alla testardaggine, mai domo, deciso a raggiungere l'obiettivo.

A quella scuola, probabilmente, Alga – come tutti la chiamiamo – si è formata, quando giovanissima decideva che la grande ingiustizia subita dagli eritrei di non essere un popolo libero era inaccettabile. E per questo si è battuta, mettendosi in gioco senza riserve o prudenze.

E così è stato anche dopo, quando il suo popolo apparentemente si era liberato: aveva cacciato l'invasore, ma si era presto ritrovato sotto un'altra forma di oppressione, quella di un governo liberticida e autoritario. Si è messa in gioco di nuovo, seppure in un modo diverso: aiutando quei poveracci – ragazzi, ragazze, giovani adulti – costretti a fuggire dalla propria terra, finendo per essere preda di mercanti di esseri umani, di strumentalizzazioni politiche, sfruttati da tutti quelli che vedevano nelle “fughe della speranza” un business su cui lucrare in qualche modo.

È così che il suo telefono ha finito per rimanere acceso giorno e notte, e il suo numero è passato di mano in mano “perché se ti trovi in qualche emergenza, chiamalo, ti risponderà Alga da Milano...”

E se il telefono squilla Alganesh non si sottrae: qualcosa fa, chiama qualcuno, spesso parte e va a tirare fuori dai guai il malcapitato che le ha chiesto aiuto.

Una sera ci siamo visti a cena, come periodicamente facciamo. Alga si è presentata con un occhio pesto e una vistosa fasciatura alla spalla: “Eh, che ci vuoi fare”, mi disse serafica, “i poliziotti libici non ci vanno leggeri”.

Era l'epoca della “primavera” libica, della cacciata di Gheddafi. Il telefono squillava in continuazione, in quelle settimane, perché c'era “la caccia all'africano” in tutto il Paese. Alga aveva deciso di partire. Era andata a cercare quei gruppi di profughi costretti di nuovo a nascondersi e a fuggire. Molti li aveva trovati ma, appunto, aveva trovato anche un gruppo di poliziotti che non avevano esitato a mettere in atto un vero e proprio pestaggio, dal quale il suo passaporto italiano e il fatto di essere fondatrice e guida della Ong Gandhi non l'avevano protetta.

La storia raccontata in queste pagine, però, fa parte di un'altra diversa impresa di Alga: la sua battaglia per fermare la tratta di esseri umani nel Sinai e per liberare coloro che ne sono finiti vittima. Tanti li ha salvati, tantissimi altri no, come purtroppo sappiamo dal mesto bilancio dei morti. Ormai conosciamo le tragiche cifre di questo orrendo traffico.

È uno di quei “genocidi silenziosi” che ha sporcato – e sporca, perché purtroppo non è affatto terminato – la nostra coscienza collettiva. Le storie che stanno dietro le immagini e i racconti di questo libro sono fra le più difficili da ascoltare. Sono vicende di una violenza estrema, disumana, indicibile. Quello che è accaduto ai migranti nel Sinai in questi ultimi anni va ascritto alle grandi tragedie moderne, come l'olocausto degli ebrei, il genocidio ruandese, il regime del terrore della Cambogia di Pol Pot, gli stermini colossali della guerra del Congo. Ma fra le tragedie, questa le supera tutte per un aspetto: è stata totalmente ignorata.

Alganesh Fessaha è stata fra le pochissime persone che hanno capito quale crimine si stava perpetrando. E quanto odioso fosse, dato che colpiva profughi già disperati ed estremamente vulnerabili. È stato merito di quel telefono sempre acceso? Può darsi. Certo è che Alga, come al solito, non ha potuto restare a guardare. Ancora una volta è partita. Una, due, cinque, trenta volte ha preso l'aereo per il Cairo. È andata nel Sinai, ha trovato appoggi e punti di riferimento per intervenire, per liberare le vittime della tratta, per portarli al sicuro. E non ha mai smesso di denunciare, di cercare chi la volesse ascoltare.

Oggi la comunità internazionale comincia a essere consapevole. Non abbastanza, ma se ne parla. Cominciamo a conoscere le cose terribili accadute nel Sinai, i sequestri, le torture, le estorsioni, il traffico di organi, i morti abbandonati nel deserto o finiti senza nome in un cimitero egiziano.

Se i fatti del Sinai sono l'esempio della “globalizzazione dell'indifferenza” di cui ha parlato papa Francesco, Alga è invece l'esempio che vi può essere una “globalizzazione della fraternità”, che si dimostra più forte di quella indifferenza. Ci insegna che l'ingiustizia non la si può mai accettare. Occorre denunciarla e sconfiggerla.

E di questo, prima di ogni altra cosa, le sono grato.

Luciano Scalettari, giornalista

Analisi di

2 marzo 2015

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