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​Distruzioni antiche e moderne

la sorte dei siti archeologici in Siria e Iraq

I distruttori di reliquie archeologiche, i contemporanei tristi esecutori della metodica distruzione dei monumenti antichi in Siria e Iraq, ignorano sicuramente che i loro atti vandalici riproducono dei gesti antichissimi.
Dal terzo millennio a.C., se non da prima, la pratica di danneggiare simbolicamente o spezzare le immagini delle divinità e dei sovrani dei popoli nemici costituiva un'efficace pratica propiziatoria che, sottraendo all'altro la protezione degli dei e offendendone la regalità, automaticamente attribuiva quelle forze simboliche, ormai orfane della loro originaria motivazione, al vincitore. Il quale si trovava così a usufruire di una moltiplicata potenza, la propria e quella sottratta, con tali azioni, al nemico.

Alcuni esempi. La splendida testa in bronzo di Sargon di Akkad, databile alla metà del terzo millennio e conservata nell'Iraq Museum di Baghdad, è stata rinvenuta a Ninive, la capitale degli assiri nell'VIII-VII sec. a.C., lontanissimo dal suo contesto originario, separata dal suo supporto (forse simbolicamente decapitata) e gravemente offesa negli occhi. Sul rilievo che rappresenta il banchetto di Assurbanipal, ora al British Museum, i volti dei personaggi regali sono stati volutamente erasi, con ogni verosimiglianza all'epoca della caduta della città nelle mani dei conquistatori Medi e Babilonesi alla fine del VII sec. a.C.

Anche ai Greci sono attribuibili azioni non dissimili, anzi più plateali. L'incendio di Persepoli ad opera di Alessandro e dei suoi compagni, un gesto fondamentalmente inutile e ancora oscuro nelle sue vere motivazioni, assume forse la connotazione di una vendetta per i danni subiti dall'Acropoli di Atene all'epoca delle guerre persiane. Infine la più grandiosa e metodica delle distruzioni: il drammatico naufragio della grande scultura greca in bronzo, avorio e altri materiali preziosi alla fine dell'antichità (IV-VI sec.d.C.) ad opera del fanatismo iconoclastico dei più intolleranti fra i cristiani, i quali vedevano nei grandi capolavori degli elleni solo immagini di idoli e demoni. Con la conseguente, incolmabile perdita di straordinari capolavori come l'Atena Parthenos e lo Zeus di Olimpia di Fidia.

Con l'avvento dell'Islam, l'iniziale atteggiamento tollerante nei confronti dei monumenti cristiani nell'attuale Giordania e Siria è dimostrato dal protrarsi dell'attività edilizia e decorativa delle chiese locali fino quasi alla seconda metà dell'VIII secolo. I califfi Omayadi addirittura utilizzarono artisti bizantini per le splendide decorazioni musive della grande Moschea di Damasco e della Cupola della Roccia a Gersulemme. L'irrigidirsi dell'ortodossia religiosa nei secoli successivi portò talvolta a devastazioni di larga portata. Mahmud di Gazna, un condottiero di stirpe turca, fondatore di un largo impero in Afghanistan, Persia e Asia centrale, e uomo peraltro di larga sensibilità culturale (fu il protettore del più grande dei poeti persiani Firdusi), nei primi anni del secondo millennio condusse ben 17 spedizioni iconoclastiche nel subcontinente indiano, distruggendo migliaia di templi indù. Molti materiali prelevati da quei monumenti vennero poi riutilizzati per la costruzione di moschee, dopo averli privati dei simboli iconici originari. In questo caso si trattava di un' appropriazione materiale e simbolica del patrimonio artistico e religioso del nemico.

Le offese portate ai siti e i monumenti della Siria e dell'Iraq negli ultimi tempi non sembrano suggerire motivazioni simili a quelle addotte per gli atti distruttivi delle epoche passate. Un generico iconoclasmo religioso, una voluta cancellazione metodica di tutto ciò che è stato realizzato dalle grandi civiltà preislamiche è dichiaratamente l'unica motivazione che viene propagandata. Ci troviamo di fronte a una meticolosa cancellazione di tutte le emergenze architettoniche antiche che hanno caratterizzato da sempre il paesaggio di quelle terre, come Palmira e Hatra.

Ma anche i resti dei grandi palazzi assiri messi in luce dall'avventurosa ricerca archeologica dei primi ricercatori europei a partire dalla metà del XIX secolo - meno appariscenti forse e meno noti al grande pubblico ma così significativi per gli studi storico-archeologici e biblici -, hanno subito danni irreparabili. La distruzione della ricchissima decorazione a rilievo dei palazzi di Nimrud e Ninive rendono ora le pur vaste collezioni del Louvre e del British Museum le uniche testimonianze di quell'arte. Sicuramente disposte ed esposte con cura in quelle istituzioni museali, ma purtroppo totalmente dislocate dai luoghi originari. La possibilità di vedere in situ quegli straordinari prodotti dell'arte arte antica è andata perduta per sempre. Fortunatamente in alcuni casi un'attenta catalogazione dell'evidenza archeologica consente agli studiosi e al pubblico informato perlomeno la conservazione cartacea e informatica degli originali distrutti. Un esempio: i raffinatissimi rilievi del palazzo del sovrano assiro Sennacherib, già da tempo manomessi o dispersi all'epoca delle due guerre del golfo, sono ora completamente pubblicati a opera di una missione archeologica dell'Università di Torino che ha potuto operare in loco ancora negli anni 2000.

L'abbattimento di monumenti le cui emergenze architettoniche sul terreno si imponevano come una sorta di riferimento visivo in luoghi spesso desertici o desolati, ha ridotto questi spazi a luoghi puramente geografici, “geologici”, la cui anima culturale per così dire non esiste più. Hatra e Palmira, pazientemente restituite all'originario splendore in più di un secolo di restauri conservativi o integrativi (anche se non sempre felici, come ad Hatra, dove si è ampiamente ecceduto in ricostruzioni integrali), si sono nuovamente trasformate in rovine quali erano all'epoca dei primi viaggiatori europei fra XVIII e XIX secolo. Ma ben patetiche rovine, ancor più frammentarie, ora definitivamente separate dal loro significato originario. Infatti spesso si è proceduto a una minutissima polverizzazione che ne impedirà comunque, anche in un improbabile futuro, la seppur parziale ricostruzione. Come è accaduto ad esempio alle statue partiche di Hatra (I-II sec.d.C.) del Museo di Mossul, in gran parte fortunatamente solo copie degli originali. I gesti vandalici che la documentazione video diffusa su internet ci propongono non sembrano troppo diversi da quelli degli antichi distruttori d'immagini nemiche a cui si accennava più sopra. Ma quanto più tristemente immotivate e inutili, stante la straordinaria distanza cronologica che fanno di quelle opere solo delle eccezionali testimonianze di un passato comune e non certo delle pericolose immagini di un culto pagano finito per sempre.

E tutto ciò avviene in taluni casi dopo avere sottratto alle strutture architettoniche più imponenti (ad Hatra e Palmira) importanti pezzi della decorazione. I quali, immessi sul mercato illegale delle antichità, sembrano poter fruttare pingui introiti ai mandanti dello scempio.

Quali prospettive per il futuro? Difficile dare una risposta. Sicuramente, come ha giustamente detto di recente Paolo Matthiae, l'archeologia del vicino oriente antico sembra essere giunta alla fine di un ciclo, quello delle grandi scoperte e delle grandi imprese conservative dei monumenti e dei siti archeologici. Ciò che è andato perduto è perduto per sempre. Qualsiasi intervento sarebbe ormai drammaticamente tardivo. Noi abbiamo assistito con sdegno e orrore agli eventi, ma è assai probabile che con il passare del tempo l'attenzione si affievolirà: “...l'instabilità con il tempo, provoca indifferenza. È così che un grande scetticismo si è impadronito di un Occidente già stremato (A. de Gobineau)”.

Non rimane forse allora che il rimpianto? Come nei versi di un antico canto arabo: “Non vedi tu dunque Hadr (Hatra) i cui abitanti vivevano nella prosperità? Ma colui che è felice è forse eterno? Sapor al-Djanud l'attaccò e per due anni ne calpestò il suolo”.

Analisi di

2 novembre 2015

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