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Educare oggi al pensiero creativo fra Umanesimo e Scienza

di Ferruccio de Bortoli

Vi proponiamo di seguito il testo dell'intervento di Ferruccio de Bortoli, già direttore del Sole 24 ore e del Corriere della Sera, all'incontro conclusivo del percorso formativo "Educare oggi al pensiero creativo fra Umanesimo e Scienza", organizzato lo scorso 5 maggio a Palermo dall'associazione Genitori e figli: istruzioni per l'uso in collaborazione con il CIDI Palermo. 

L’anno scorso circa centomila persone hanno lasciato il nostro Paese. Gran parte erano giovani che sono andati a studiare e a lavorare all’estero. A Londra sento parlare per strada più italiano che a Milano e a Roma. La nostra è una società invecchiata, con un’età media intorno ai 45 anni. I bisnonni, ai quali auguriamo lunga vita, sono più numerosi dei pronipoti, del futuro dei quali ci disinteressiamo. L’acronimo che dovrebbe farci più paura è Neet, not in education, employment and training. Sono 2,3 milioni in Italia i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati né a scuola né al lavoro. Questo è il più grande spreco del nostro Paese. È come se esistesse un’immensa discarica di talenti, gettati lì, abbandonati ed esposti alle peggiori tentazioni, non ultima la criminalità. Che cosa facciamo per arginare questo fenomeno? Poco o nulla. Ma la colpa non è del governo che pure qualcosa sta facendo, la colpa è di una società civile spesso egoista, gretta e chiusa su se stessa. Pur essendo il tessuto del volontariato italiano una gemma preziosa che arricchisce il nostro capitale sociale, a volte migliore di quello dei Paesi con i quali ci confrontiamo. 

La domanda che dobbiamo porci è se eravamo più generosi e attenti nei confronti dei giovani o degli ultimi quando eravamo più poveri. Siamo nell’anno giubilare della misericordia ma dovremmo occuparci con occhio critico anche dell’egoismo materialista di una società che ha perso la memoria della propria tradizione civile – e anche cristiana, ma di questo ne parlerà più diffusamente padre Bianchi - smarrito il senso del proprio destino e a volte ci appare incapace di costruire il proprio futuro. L’emergenza educativa del nostro Paese è misurata da altri dati. Le statistiche sono fredde e impietose. L’Italia sta diventando un Paese multietnico e lo sarà sempre di più nei prossimi anni. Questo solleva paure, non ingiustificate, alimenta distanze e pregiudizi. Ma ci dona anche l’esempio meraviglioso di tanti gesti di solidarietà, di cui la Sicilia è stata ed è protagonista, senza peraltro vantarsi. La carità è un gesto umile e silenzioso, come le sette opere di misericordia che abbiamo imparato annoiandoci a catechismo. 

Si pensa che l’immigrazione porti con sé anche criminalità, non solo i disagi di una difficile integrazione, ed è purtroppo vero. Ma c’è un dato sul quale riflettiamo poco. In Italia risiedono 5 milioni di stranieri, l’8,2 per cento della popolazione. Il grado di istruzione degli stranieri – e questo ci dovrebbe far riflettere se non vergognare –è di pochissimo inferiore a quello degli italiani. Tra i 15 e i 64 anni, la metà degli stranieri ha al massimo la licenza media, il 40 per cento un diploma di scuola superiore, il 10 per cento una laurea. Gli italiani che hanno una laurea sono meno del 15 per cento. Pochissimi rispetto alla media europea. Il nostro è un Paese che sta invecchiando ed è sempre meno istruito. Il numero degli studenti, ovviamente per ragioni demografiche, continua a decrescere. Nell’anno scolastico 2014-15 gli iscritti a corsi di vario grado sono stati circa 8,8 milioni, mentre i docenti sono leggermente cresciuti, 788 mila all’82 per cento donne. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono ormai il 9,2 per cento. Restando sul tema dell’immigrazione, va ricordato che all’origine del gesto di apertura di Angela Merkel nei confronti dei profughi siriani, poi ritirato perché politicamente insostenibile, c’era certamente un moto di compassione cristiana ma anche un calcolo più freddo di prospettiva economica. Gli immigrati sono necessari per l’economia tedesca e la sostenibilità delle loro pensioni. E i siriani sono tra i più istruiti di tutto il Medio Oriente, con tassi di scolarizzazione superiori ai nostri.

Il confronto scolastico con l’Europa ci penalizza. E il divario diventa ogni anno più grande. In base ai dati Eurostat, nella fascia di età tra 30 e 34 anni, i laureati italiani di genere maschile sono soltanto il 18,8 per cento contro il 33, 6 per cento della media dei ventotto Paesi Ue e il 44 per cento del Regno Unito. Le donne sono più brave. Nella stessa fascia di età in possesso di un titolo di studio superiore sono il 29,1 per cento. A livello europeo raggiungono il 42,3 per cento. Gli investimenti in istruzione, sulla cui efficienza ci sarebbe molto da discutere e nonostante la buona scuola sono comunque in calo. Nel suo ultimo rapporto, il Censis parla dell’Italia come una società molecolare nella quale prevalgono il soggettivismo, l’interesse particolare, e dove non maturano più come una volta i valori collettivi. La scuola è uno dei grandi valori collettivi. In questa società “sconnessa a bassa autopropulsione” crescono le diseguaglianze. E il merito non viene più riconosciuto come tale se non c’è un reddito adeguato in grado di sostenerlo e promuoverlo. La coesione sociale è messa a dura prova. Prevale l’individualismo come unica misura dell’affermazione dei diritti. E non ci siamo accorti che, nel momento in cui abbiamo depotenziato la famiglia, abbiamo svilito le istituzioni, che sono le famiglie della società, l’architrave sulla quale si regge una democrazia evoluta. La nostra fortuna è avere realtà locali vive, come la vostra, appartenenze radicate, un volontariato diffuso, un terzo settore vivace che fa sì che uno dei principi più importanti della nostra Costituzione e della stessa Unione europea, il principio di sussidiarietà, non rimanga lettera morta. 

Un Paese ha un futuro se mette al proprio centro il sistema educativo, che non è costituito soltanto dalla scuola, dall’università, dalla formazione professionale, dall’alternanza-scuola lavoro. Ma dalla scuola della vita di cui facciamo tutti parte, a qualsiasi età. Ognuno di noi svolge, ogni giorno, una missione educativa non solo nei confronti dei figli o degli allievi. Ma anche nei confronti degli sconosciuti. Questa missione è fatta dal nostro esempio personale, dal nostro modo di comportarci nella società, dalle parole che usiamo, dal linguaggio che sperimentiamo sui social network, dove spesso la libertà sconfina con l’insulto, il dileggio, la provocazione gratuità, la viltà dell’anonimato. E sappiamo tutti quale piaga sia il bullismo, anticamera della prepotenza e insensibilità sociale, quando non della devianza. Un dato mi ha colpito: il 60 per cento dei dirigenti scolastici ha gestito un caso di cyberbullismo. In una società multimediale, come la nostra (ma siamo anche indietro nell’istruzione digitale, solo Bulgaria e Romania fanno peggio di noi in Europa) accade un fenomeno sul quale ragioniamo poco. L’individuo - non uso apposta il termine cittadino – è prigioniero di una sorta di incantesimo della connettività. È in contatto, in tempo reale, con tutto il mondo e crede ormai di potersi isolare completamente dal contesto sociale in cui vive. Ciò determina a volte delle solitudini tecnologiche devastanti. Persone che risultato inghiottite dal proprio computer o dal proprio smart phone dimenticano di vivere in una comunità. Il virtuale è reale per loro. La realtà invece è una finzione, gli affetti veri sono lontani, la società che gli sta intorno una inutile barriera, la comunità un fastidio. Il nostro esempio, quando è positivo e riflette un’attenzione autentica per il prossimo, può essere prezioso. È un seme che si riproduce, anche se lentamente. 

Ma la nostra indifferenza, il nostro scarso rispetto per il bene pubblico, il disprezzo delle regole, l’esaltazione della furbizia come virtù italica, hanno un effetto negativo sicuro e ancora maggiore. L’indifferenza egoista deprime gli anticorpi di una società ed è il terreno di coltura della sopraffazione, della prepotenza, quando non della violenza. Educare oggi significa non scordarci di fare una buona azione quotidiana. Una volta si sarebbe detto un fioretto. Non dimenticarci che gli altri ci guardano, soprattutto i giovani e ci giudicano. Che le nostre parole sbagliate o malate rimangono indelebili sui social network dei quali facciamo un uso sconsiderato. Che la salvaguardia dei nostri valori, come comunità, dipende dall’educazione civica di cui noi mostriamo di essere interpreti. Anche quando camminiamo per strada, gettiamo un rifiuto per terra, passiamo con il rosso, non rispettiamo le file. E se siamo buoni cattolici e abbiamo letto Evangelii Gaudium o Amoris Laetitia sappiamo che la strada del buon senso, quella della diligenza del padre di famiglia, non è molto diversa dal percorso pastorale che indica Francesco. Ci vuole semplicemente un po’ di buona volontà e un discreto tasso di umiltà. In conclusione, io credo che la principale missione sia quella di “educare a vivere con gli altri”, a riconoscere il proprio prossimo, a preparare i giovani al cambiamento, al costante miglioramento di se stessi, abituandoli al rischio e alla competizione, ma non nella logica brutale della lotta feroce per prevalere sugli altri. Vivere con gli altri ma non contro gli altri. In questa prospettiva, penso sia necessario non solo rivalutare l’educazione civica ma anche avviare un’educazione al fattore religioso, al dialogo e alla reciproca comprensione fra fedi diverse. Anche per essere più certi e orgogliosi della propria. Lo spirito critico permetterà di separare la finzione dalla realtà, di coltivare il dubbio, di sottrarsi alla trappola della sudditanza passiva e perseguire una cittadinanza consapevole e tenere viva l’immaginazione e la creatività che - come diceva Einstein - è perfino più importante dell’accumulo di troppe conoscenze. 

Ferruccio De Bortoli

Analisi di Ferruccio De Bortoli, giornalista, presidente Fondazione Corriere della Sera

17 maggio 2016

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