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Il nuovo compito dell'Europa

di Gabriele Nissim

Improvvisamente l’Europa si sente orfana. Fino a ieri erano gli Stati Uniti che salvavano il nostro continente. È accaduto con il fascismo e il comunismo, quando gli Stati Uniti vennero in soccorso di un Europa che si era suicidata nel corso delle due guerre mondiali. E anche quando gli Stati Uniti commisero dei gravi errori in America Latina, in Vietnam o in Iraq, l’America democratica era sempre un punto di riferimento per gli europei.
Gli Stati Uniti erano sempre visti come il Paese che ci toglieva le castagne dal fuoco, che difendeva la nostra sovranità e che con la Nato assicurava la coesione dell’Occidente.

Ora quello che nel bene e nel male era il nostro protettore, con l’elezione di Donald Trump sembra avere preso un’altra strada.

Dal nuovo presidente americano arriva un messaggio forte e inequivocabile. “Prima di tutto gli Stati Uniti, mentre il resto del mondo si dovrà arrangiare da solo.” Ma cos’è il resto del mondo da cui Trump si vuole liberare? Tutto ciò che ha a che vedere con la condivisione, la globalizzazione, l’integrazione.

Per il nuovo inquilino della Casa Bianca bisogna liberarsi dai vincoli delle istituzioni internazionali. Meglio la Brexit che l’unità europea, meglio il protezionismo che gli accordi di libero scambio, meglio la fine della Nato, piuttosto che una politica di difesa condivisa, meglio un accordo caso per caso con gli Stati, e tra le superpotenze, piuttosto che il rafforzamento delle Nazioni Unite e degli organismi sovranazionali, meglio non lasciarsi imbrigliare da accordi sull’ambiente, piuttosto che farsi condizionare dai vincoli di Parigi, meglio non occuparsi dei genocidi, ma venire a patti con i dittatori e gli uomini forti come Assad, Erdogan e Putin.

Il disegno di Trump non nasce dal nulla, ma raccoglie lo scontento di quanti sono stati penalizzati dalla globalizzazione, da chi ha perso il posto di lavoro per le economie emergenti nel terzo mondo, da quanti hanno vissuto negativamente l’emancipazione femminile e i diritti delle minoranze, dalla paura che è nata in tutti questi anni dagli effetti devastanti del terrorismo fondamentalista, dal timore di perdere il lavoro di fronte al fenomeno moderno dell’immigrazione.

Trump piace a Farage, alla Le Pen, a Salvini, a Grillo, a Orban, a Putin per un motivo molto semplice. Il presidente americano ritiene che tutti i problemi del mondo si possano risolvere con un colpo di bacchetta magica con il ritorno agli Stati etnici e alla sovranità delle nazioni. Dunque la missione è quella di liberarsi delle elite sovranazionali nell’economia e nelle istituzioni, di considerare con sospetto quanti hanno una visione cosmopolita del mondo, di costruire muri per evitare i pericoli della “contaminazione”.

Non dimentichiamoci che già una volta, seppure in condizioni diverse, Hitler cominciò la campagna contro gli ebrei, presentandoli al mondo come i portatori perversi di un potere sovranazionale che avrebbe corrotto l’anima autentica delle nazioni. Ciò che stupisce in quanti oggi applaudono alla ricetta di Trump è che non si rendono conto che il ritorno ai nazionalismi nel tempo breve può sembrare una valvola di sfogo e una rivolta contro le elite, ma nei tempi lunghi può invece portare al pericolo di nuovi gravi conflitti in tutto il mondo.

Oggi i vari Trump, Le Pen, Salvini, Putin, Erdogan sembrano tutti amici per una nuova resurrezione del mondo. Domani si faranno la guerra tra di loro.

Nella sua ultima apparizione al Parlamento europeo Mitterand, come ricorda Sergio Romano, fece un intervento profetico. Se gli europei si allontanavano dagli ideali europei e rinunciavano al progetto dell’Europa federale, si potevano ripetere nel nostro continente i guasti dei nazionalismi delle due guerre mondiali.

Dunque la battaglia per l’unità europea è l’unica risposta per il nostro futuro e per la pace nel mondo. 
Con una differenza. Ora, nell’epoca di Trump, l’Europa ha un compito in più. È chiamata a salvare l’America dai rischi di un presidente populista, nazionalista e isolazionista. 

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

15 novembre 2016

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