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Il pessimismo porta al razzismo

di Gabriele Nissim

Una scena del film Timbucktu

Una scena del film Timbucktu

È possibile sconfiggere l’integralismo islamico?

In molti, di fronte ai crimini dell’Isis e alla catena infinita degli attentati terroristici (ultimo quello di Istanbul), pensano che il fenomeno sia difficile da estirpare perché il mondo arabo e musulmano non si dimostra capace di produrre degli anticorpi che cambino la situazione.
Tanto pessimismo genera non solo indifferenza, ma dà spazio a chi ritiene che l’unica soluzione sia quella di rendere impermeabile le nostre società alla possibile influenza della cultura islamica e si dimostra paladino di una chiusura delle nostre frontiere di fronte all’immigrazione.

Chi come Salvini e la Le Pen vorrebbe ergere dei muri nei confronti degli extracomunitari, come fanno oggi gli ungheresi e i polacchi, non è solo motivato da pulsioni razziste, ma parte dall’idea che quel mondo sia irrimediabilmente perduto e che dall’Iran, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria ci possono giungere soltanto cattive notizie perché il fondamentalismo sarebbe connaturato in culture così radicate da rendere impossibile una ribellione delle coscienze.

Chi fa queste affermazioni ritiene che le popolazioni arabo-musulmane vivano nei confronti dell’integralismo religioso una sorta di servitù volontaria, per cui la sottomissione della donna, il rifiuto delle altre culture e religioni, la jihad nei confronti degli infedeli, il disprezzo della democrazia, siano parte normale del loro modo di vivere.
Dunque qualsiasi ipotesi di battaglia per la libertà, di pluralismo, di aspirazione alla democrazia, di resistenza morale nei confronti dell’oppressione e dell’oscurantismo non avrebbe nessun tipo di spazio in quei mondi.

Non avrebbero dunque senso per chi vive nelle zone sottomesse all’Isis o in Iran e in Arabia Saudita le parole profetiche di uno straordinario scrittore come Vassilij Grossman, che di fronte a una Russia invasa prima dai nazisti e poi schiacciata dal totalitarismo staliniano, scrisse nel suo capolavoro Vita e Destino che nonostante tutte le pesanti sconfitte ,il totalitarismo alla fine sarebbe stato annientato, perché mai sarebbe riuscito a cambiare la natura dell’uomo e a censurare l’istinto di libertà connaturato in ogni essere umano.
La bontà “insensata” degli uomini è più forte di ogni ideologia e di ogni costrizione: ecco da dove nasce la speranza per lo scrittore russo che non vide mai pubblicato il suo libro per la censura di Suslov e dei dirigenti del Cremlino.

Chi smentisce questa visione pessimista della condizione umana nel mondo musulmano è il regista mauritano Abderrahmane Sissako, nel suo straordinario film Timbuktu, dove racconta quanto accade in una antica città del Mali finita sotto la dominazione dei jihadisti.
Come per lo scrittore russo che non si aspettava per la Russia negli anni Sessanta una facile via d’uscita dal gioco totalitario, non c’è nessun happy ending per la popolazione sottomessa ai fondamentalisti che impongono con il terrore tutta una serie di divieti : non si fuma, non si può ascoltare musica, non si può ballare, non si può giocare a calcio, non si può più scegliere un rapporto di amore con un altro essere umano. Chi sgarra viene lapidato, frustato, picchiato, giustiziato. La bandiera nera sembra ergersi per sempre.

Eppure il regista è capace di mostrarci i piccoli semi della speranza, perché i fondamentalisti possono sì imprigionare i corpi, ma non possono ridurre al silenzio lo spirito delle persone. 
E così vediamo la protesta silenziosa dei giocatori di calcio che decidono di giocare una partita immaginaria senza pallone. Corrono, dribblano, colpiscono di testa, segnano, si passano una palla che esiste solo nella loro immaginazione. I jahidisti hanno proibito il calcio, ma non possono riuscire nell’impresa di impedire ai giovani di sognare e di amare il pallone.
E tante sono le donne che resistono all’umiliazione, anche se il loro destino è segnato: c’è la giovane che continua a cantare anche quando viene flagellata in pubblico; c’è la venditrice di pesci che non accetta di indossare i guanti, anche se la punizione è l’amputazione delle mani; c’è chi non rinuncia ad amare e subisce così la lapidazione.

Il regista, con un film che meriterebbe di essere proiettato in tutte le scuole nel Giorno della Memoria, riesce così a veicolare un messaggio di straordinario effetto: l’integralismo islamico non è un fenomeno che può durare perché è in antitesi con l’aspirazione alla libertà di ogni essere umano, sia che sia nato arabo, mussulmano, cristiano o ebreo.
Come è accaduto agli europei per il nazismo e il totalitarismo sovietico, così l’Isis si è presentato ai musulmani come un nuovo Paradiso in terra che li avrebbe risollevati dall’umiliazione con la creazione di un internazionalismo che avrebbe superato i vecchi confini nati dalla decolonizzazione. Ma ogni volta che la legge della sharia integralista viene applicata, essa mostra il volto dell’oppressione e può essere retta solo con il terrore e la paura. La sua fine è già scritta, ma anche se non per domani mattina.

Ma allora cosa possiamo fare?

La scrittrice Ayaan Hirsi Ali, nel suo bel saggio Eretica, cambiare l’Islam si può, indica due strade che ci fanno comprendere come il pessimismo e la rassegnazione si possa sconfiggere con la consapevolezza di una strada possibile da percorrere.
Primo punto: il soft power culturale.
Non pensare che per sconfiggere un’ideologia basti affidarsi ai droni e alle bombe. Serve impegnarsi in una grande campagna sul piano delle idee, come l’Occidente ha fatto nel tempo della Guerra Fredda quando nacquero giornali e radio come Free Europe, che diedero voce ai dissidenti dell’Est europeo e fecero conoscere le rivendicazioni di quelle società. 
Oggi molti Stati, a causa della dipendenza dal petrolio, hanno dei rapporti economici con Paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi che non solo hanno imposto un oscurantismo di stampo medioevale sulle loro popolazioni, ma hanno finanziato in larga misura movimenti fondamentalisti come l’Isis e gli Hezbollah. Per questo spesso tacciono sulla violazioni dei diritti umani. Ecco perché diventa fondamentale il ruolo della società civile e di tutte le organizzazioni non governative che possono cercare un rapporto diretto con chi si batte per la libertà in quei Paesi. Nell’epoca di Internet e dei social network, l’informazione e la solidarietà attiva puossono funzionare indipendentemente dai compromessi degli Stati.

Secondo punto: la grande risorsa degli immigrati che vengono a vivere in Europa. Molti vedono solo il lato negativo e temono l’infiltrazione di terroristi e la nascita di isole di emarginazione dove gli islamici possano riprodurre nel nostro territorio pratiche di vita oscurantiste con la sottomissione delle donne e il rifiuto di adeguarsi ai valori della cittadinanza democratica.
In realtà, come scrive Hirsi Ali, la contaminazione del nostro mondo può accelerare un processo di modernizzazione e laicizzazione del mondo islamico. E proprio dagli immigrati arabi e musulmani che può nascere una sfida culturale all’Isis e ai peggiori regimi oscurantisti del Medio Oriente.

Galli della Loggia scrive giustamente sul Corriere della Sera che un certo multiculturalismo senza principi ha impedito una battaglia di valori e non ha certamente aiutato la crescita democratica e culturale degli immigrati, che non dimentichiamoci però si sono trasferiti da noi per cercare un luogo migliore dove vivere.
Tuttavia va compreso che l’integrazione è un processo lungo che, come osserva il sociologo Bauman, richiede la creazione di esperienze comuni, dall’educazione nelle scuole, ai convegni, ai dibattiti pubblici, fino al dialogo personale con l’immigrato che vive nella porta accanto.

Se non si parla e si discute apertamente, come sarà mai possibile che chi è sbarcato dopo viaggi terribili dall’Africa possa comprendere il valore della laicità dello Stato, della democrazia, dei diritti delle donne?

Ci vuole tempo e tanta fatica. Questa è l’unica strada possibile.

I musulmani sono uomini come noi e vogliono il miglioramento della condizione umana. La religione per la maggioranza degli uomini - ebrei, cristiani, islamici - è un sentimento privato che nasce, più che da una tradizione famigliare e culturale, dalla fragilità e dall’impotenza di fronte a eventi di cui non si riesce ad afferrare il senso. Ecco perché il dibattito tra credenti e non credenti, così come tra gli adepti delle varie religioni, come è cominciato con la storia dell’uomo, così continuerà fino alla fine dell’umanità.

Per questo il pessimismo di coloro che dipingono i mussulmani come impermeabili al progresso, a causa della loro religione, ci porta al razzismo e alla paura, con il risultato di creare muri invalicabili. 

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

14 gennaio 2016

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