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Kapuscinski e l'Islam

di Francesco M. Cataluccio

Non è possibile comprendere il ruolo dell’Islam nel mondo moderno senza capire che cosa è stata la rivoluzione iraniana. Tanti politici e intellettuali (basti pensare ai vergognosi reportage di Michel Foucault, nei quali si inneggiava alla “giusta violenza della Rivoluzione”) presero, trentacinque anni fa, un abbaglio, arrivando a giustificare l’assalto all’Ambasciata americana a Teheran, che mostrò al mondo la pericolosità del fanatismo e creò un precedente pericoloso nei rapporti internazionali. Si può invece sostenere che i tragici avvenimenti degli ultimi anni abbiano in parte la loro radice proprio nel 1979, quando Komeini (che morirà nel 1989) conquistò il potere. Egli infatti, oltre alla cacciata dello Scià, perseguiva un altro scopo, che esulava dai confini dell’Iran. Si considerava un profeta, chiamato da Dio alla missione di fare della repubblica iraniana un potente centro religioso, destinato a porsi come guida di tutto il mondo islamico. I mussulmani del mondo intero sarebbero dovuti diventare, sul modello dell’Iran, una potenza religiosa apportatrice di civiltà, in grado di scatenare, in nome dell’Islam, la rivoluzione a livello mondiale e liberare le masse degli oppressi, in particolar modo nel Terzo Mondo.

Ryszard Kapuscinski seguì in diretta quegli avvenimenti e, a cose concluse, in un ormai deserto albergo di Teheran (“Avevo l’impressione di attraversare un grande palcoscenico dopo l’uscita di scena dell’ultimo attore”), scrisse un libro, Shah-in Shah che, oltre al valore letterario, rimane esemplare per la freddezza dello sguardo, per l’ostinata volontà di capire senza pregiudizi, per la lucidità dell’analisi. Nell'edizione italiana (Feltrinelli) chiude il volume (pubblicato per la prima volta in polacco nel 1982) una sorta di breve bilancio, scritto nel 1997 per l’edizione tedesca, che si raccomanda per le riflessioni che contiene. Spesso i giornalisti si compiacciono delle loro doti di scrittori e indugiano sulle belle immagini ad effetto che si fermano però alla superficie degli avvenimenti. Kapuscinski, invece, che grande scrittore lo è veramente (basta leggersi il racconto della polizia che spara sui manifestanti e un uomo sulla seggiola a rotelle, degno del cinema di Ejzenstejn), si fissa sui particolari come un ottimo fotografo, quale era: “Attraverso un dettaglio si può far vedere tutto: l’universo in una goccia d’acqua. Il particolare ci è più accessibile, più familiare del generale”. Ma ciò che lo anima è l’interesse dell'antropologo e del militante della causa della libertà. La scrittura è per lui un mezzo per comprendere meglio la realtà politica e sociale, la possibilità di far capire con chiarezza problemi e situazioni ingarbugliate.

La rivoluzione che cacciò la dittatura dello Scià fu ispirata da un nazionalismo radicale. L’Iran era uno dei pochi Paesi del terzo Mondo a non esser mai stato una colonia e la popolazione vedeva Reza Pahlavi come “un servo degli Stati Uniti”. Fu una rivoluzione della tradizione contro la modernità: “Un popolo oppresso da un despota e ridotto al ruolo di oggetto cerca un rifugio, un luogo dove nascondersi, barricarsi, essere se stesso. È l’unico modo per mantenere la propria identità e perfino la propria normalità. Non potendo emigrare nello spazio, il popolo intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno a un passato che, paragonato ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso perduto. Trova rifugio in usanze antiche: tanto antiche, quindi tanto sacre, che il potere non osa combatterle. Accade così che sotto il tappo della dittatura, contro e malgrado il suo volere, si assiste a una progressiva rinascita di costumi, simboli e credenze di una volta, caricati di un significato nuovo e provocatorio”. Fu una rivoluzione disarmata nella quale, quasi subito, ebbe il sopravvento il fondamentalismo. 

Facendo un bilancio della storia iraniana degli ultimi venti anni, Kapuscinski nota (anche se i fatti recenti lo hanno smentito) che i fondamentalisti islamici non hanno come bersaglio principale del loro odio né l’Europa né gli Stati Uniti, ma “si accaniscono con la ferocia e la brutalità più atroci proprio contro i regimi dei loro stessi Paesi (come accade, ad esempio, in Algeria o in Egitto) e contro l’intellighenzia liberale islamica, i cui rappresentanti vengono considerati dei traditori, dei miscredenti, che offendono le leggi del Corano e vanno quindi puniti, anzi, eliminati”.

Una delle lezioni che, secondo Kapuscinski si possono trarre dagli esiti della rivoluzione iraniana (ormai in “fase calante”), è che non sia possibile democratizzare uno Stato multietnico (dove accanto all’etnia maggioritaria, i farsi, vivono curdi, baluci, tagiki, arabi), ma che prima o poi si ricade in una violenta dittatura: “In uno Stato multietnico in cui un gruppo sia predominante, qualsiasi accenno di soluzioni democratiche evoca lo spettro della disintegrazione dello Stato”.

Purtroppo quella rivoluzione non è andata come auspicava un buffo venditore di tappeti, un po’ filosofo, a conclusione del libro: “La Persia ha dato al mondo non cose materiali, ma spirituali: la poesia, la miniatura e il tappeto; il Paese ce la farà a sopravvivere, la bellezza è indistruttibile”. Anche se, ad esempio, il bel cinema che viene prodotto, tra mille difficoltà, in quel Paese, farebbe sospettare che avesse un po’ ragione.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

4 novembre 2016

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