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L'assimilazione non è un pericolo

di Anna Foa

Anche nell’età dei ghetti gli ebrei italiani hanno avuto intensi rapporti con il mondo esterno. A non consentire una netta separazione erano fattori molto più profondi delle mura che li rinchiudevano: la lingua comune, l’italiano, che gli ebrei parlavano e usavano comunemente e permetteva la comunicazione diretta con l’esterno, e la frequentazione abituale, nonostante le barriere del ghetto - e forse proprio grazie a queste barriere, che rassicuravano da una parte i cristiani dell’inferiorità degli ebrei, dall’altra gli ebrei che si sentivano rafforzati nella loro diversità. È così che le mura dei ghetti non impedivano quella netta separazione che il villaggio ebraico, lo shtetl, pur senza mura, invece favoriva, con la diversità della lingua, degli abiti, dei modelli di vita.

È pur vero che fino a che gli ebrei non divennero, con l’emancipazione, cittadini come gli altri, uguali nell’accesso ai mestieri, agli studi, alle professioni, questa vicinanza al mondo dei cristiani non suscitò allarme, a meno che non si spingesse oltre la soglia della conversione. Ma entro quei limiti, finché gli ebrei restarono ebrei, nessuno deplorò che fossero troppo vicini ai cristiani, che ne conoscessero le usanze e ne condividessero, ove possibile, gli spazi. Se i ragazzi del ghetto di Roma saltavano la notte le mura del ghetto per bere con i cristiani nelle osterie, certo i fattori della comunità non approvavano che bevessero i vini dei gentili, ma la preoccupazione maggiore era quella di non dover pagare la multa che si doveva versare in caso venissero scoperti dai birri. Di rischio di assimilazione non si parlava proprio. Il concetto stesso nasce dopo, nelle polemiche post-emancipatorie e in quelle tra sionisti e “assimilazionisti”, nel Novecento.

È in questo contesto che è stata inventata la parola “assimilazione”, adottata per criticare l’allontanamento di una parte degli ebrei dalla religione e dalle istituzioni comunitarie e assunta dal sionismo per deplorare i rapporti dell’ebraismo diasporico con il mondo esterno. Una parola che gli storici, recentemente, tendono a cassare dalla loro terminologia, per farla diventare semmai oggetto del loro interesse di storici: non si parlerà, così, di età dell’assimilazione per definire l’età della post- emancipazione, ma semmai del contesto storico in cui si è creata questa definizione. Altre sono ormai le parole atte a definire quel processo di avvicinamento all’esterno e di reciproca acculturazione che caratterizza l’età successiva al raggiungimento dell’uguaglianza: creazione di una subcultura, integrazione sociale, scambio culturale. Tanto più che se c’è un’età in cui si può parlare di scambio, di influenza reciproca fra culture, è questa tra Otto e Novecento, quando la cultura ebraica riverbera di sé il mondo e forgia lo spirito della cultura esterna. Ancora più abbandonata dagli storici è la nozione di fallimento dell’emancipazione, che pur ha avuto illustri sostenitori a partire da Hannah Arendt. La Shoah non è il risultato delle illusioni dell’Emancipazione, della perdita dell’identità religiosa, perché poi di questo, più che di rinuncia all’identità ebraica, si tratta. Nessuno studioso serio oggi potrebbe neppure avvicinarsi a questo concetto.

Spiace perciò che lo abbiano fatto dei rabbini di oggi, intenti a polemizzare contro le affermazioni di un Presidente dell’UCEI che invitava gli ebrei a volgere il loro sguardo al mondo esterno, a non chiudersi. Che non vuol certo essere un invito ad allontanarsi dalla propria identità, a rinunciarvi, bensì l’esortazione a guardare al mondo intorno a sé, a capirlo, a lottare per cambiarlo se necessario. A essere, oltre che ebrei, esseri umani, cittadini del mondo.

E spiace che non si capisca il richiamo al nesso ineliminabile che lega, per una minoranza come la nostra, la vitalità della cultura interna, ebraica, con quella del mondo intorno a noi. Nella diaspora, viviamo immersi in un mondo che non è ebraico, piccolo o grande che sia il nostro numero. Se il mondo esterno entra in crisi, vegeta, tace, non saremo per questo più vitali e creativi, ma risentiremo della sua crisi. Nel Sette-Ottocento, il ghetto di Roma divenne un ghetto chiuso in un altro ghetto, lo Stato della Chiesa alla sua fine, e risentimmo di questa decadenza che si alleava alla nostra decadenza accrescendola e potenziandola. Solo se teniamo presenti i nostri nessi con l’esterno possiamo alimentare la nostra cultura, la nostra vitalità. Mi auguro che nessuno oggi abbia ancora nostalgia del ghetto, di quello degli ebrei e di quello dei gentili intorno a loro.

Anna Foa

Analisi di Anna Foa, storica

16 giugno 2016

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