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L'idea xenofoba di Europa

dall'Austria di Hofer alla riabilitazione dell'antisemita Tiso

L’exploit della destra populista austriaca al primo turno delle elezioni presidenziali del 24 aprile è solo l’ultimo passaggio della reazione a catena innescata in Europa dall’emergenza migranti. La peggiore crisi dei rifugiati nel Vecchio continente dalla Seconda guerra mondiale ha rilanciato la retorica xenofoba e allarmista da Nord a Sud, mostrato ancora una volta la debolezza strutturale dei grandi partiti tradizionali e approfondito la frattura Est-Ovest compattando i governi più o meni autoritari dell’ex blocco sovietico.

L’opposizione alla linea aperturista della Germania di Angela Merkel e alla politica di ripartizione dei profughi proposta da Bruxelles ha rinsaldato alleanze regionali nelle quali confluiscono dinamiche diverse: la chiusura entro i confini della fascia frontaliera, storica seppur mobile linea di definizione dell’Occidente cristiano; il richiamo all’omogeneità etnica perseguita in epoca sovietica; l’insofferenza ai presunti tentativi di dominio e assimilazione culturale di un’Unione europea paragonata alle potenze occupanti del passato.

Leader carismatico di questa autoproclamata lega di difesa europea, il premier nazionalista Viktor Orbán che dal 2010 guida l’Ungheria e nel 2014 espose in un discorso diventato celebre la sua idea di “democrazia illiberale” da importare in Occidente. Nell’estate 2015, all’apice degli arrivi dalla via balcanica, Orbán fu il primo a volere una barriera di metallo e filo spinato al confine meridionale con la Serbia proponendo un modello che dopo i primi moti di ufficiale indignazione è stato applicato da molti altri - Slovenia, Croazia, Bulgaria, Austria… l’Austria che ha appena annunciato la costruzione di una barriera anche sul lato italiano, al Brennero. Va detto che l’Ungheria regge già il peso di un terzo di tutte le domande d’asilo depositate nella prima metà del 2015 nell’Unione europea: oltre 33 mila richieste solo tra gennaio e marzo, soprattutto da kosovari, albanesi, serbi e macedoni. L’onda mediorientale ha fatto saltare le ultime resistenze.

Con una retorica che sovrappone subdolamente immigrazione e terrorismo restituendo ai Paesi del Centro-Est il ruolo di bastione nell’Europa-fortezza, i leader orientali hanno fatto un lavoro sporco utile a tanti, aprendo di fatto la strada alle iniziative unilaterali assunte mese dopo mese in un domino che risaliva fino a Svezia e Danimarca – lo scorso gennaio fu chiuso anche il ponte sullo Stretto di Oresund che collega i due Paesi. Tanto da far emergere una sorta di asse neo-asburgico tra Vienna e Balcani contrapposto all’inedita intesa Atene-Berlino, schierate sulla linea della solidarietà con i profughi. Anche da queste tensioni, oltre che dall’attacco totale giunto dai suoi stessi alleati, è derivata la determinazione della cancelliera Merkel nel perseguire l’accordo con la Turchia sulla condivisione della gestione dei flussi migratori. L’intesa, firmata lo scorso 18 marzo a Bruxelles, porta più a Sud e rende invalicabile il muro fin qui realizzato per segmenti dagli Stati centro-orientali.

“Abbiamo già un milione di rifugiati ucraini” aveva detto in gennaio nel primo discorso al Parlamento europeo la premier polacca Beata Szydlo. In realtà si tratta prevalentemente di migranti economici, con semplici visti di lavoro validi per un periodo massimo di sei mesi. L’anno scorso le richieste d’asilo vere e proprie sono state poco più di 5 mila. Ne sono state accolte quattro. Eppure la Polonia che nell’autunno 2015 ha visto il ritorno al governo degli ultraconservatori di Jaroslaw Kaczyński serra le porte.

L’esodo dall’Ucraina verso Polonia, Russia, Ungheria, Germania… è conseguenza del conflitto in corso dal 2014 nel Paese che dal crollo dell’Urss non ha mai trovato stabilità e che oggi conta oltre un milione di sfollati interni, più cinque milioni di persone bisognose di aiuto umanitario.

Alleanza forte, Varsavia-Budapest. Avanguardia del Gruppo Visegrád, che fin dal nome si ricollega al patto politico e commerciale stretto nel Trecento da Casimiro III di Polonia, Carlo I d’Ungheria e Giovanni I di Boemia. Oggi il Gruppo riunisce Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.

Proprio la Slovacchia, dal prossimo luglio presidente di turno della Ue, è un caso emblematico. Le Politiche di marzo hanno decretato la fine del primo governo monocolore dal “divorzio di velluto” del 1993 dalla Repubblica Ceca, sull’onda del sentimento anti-immigrazione alimentato dall’ultradestra ma anche dalla sinistra di governo lanciata all’inseguimento. Crollo netto, dal 44% del 2012 al 28,3% per il partito socialdemocratico del premier Robert Fico, che aveva incentrato la campagna elettorale sui temi della sicurezza nazionale e della difesa dall’islamizzazione malgrado i bassi numeri dell’accoglienza nel Paese come nel resto della regione. Fico è riuscito a formare una coalizione che comprende anche i nazionalisti dell’Sns. In Parlamento però è entrato il Partito del popolo-Nostra Slovacchia, formazione antisemita e xenofoba guidata dal governatore regionale Marian Kotleba, emanazione della Fratellanza slovacca bandita nel 2006. La Fratellanza si richiamava esplicitamente alla Guardia di Hlinka, gruppo paramilitare del regime filonazista di Jozef Tiso durante la Seconda guerra mondiale. Il 18 aprile Kotleba ha chiesto al Parlamento un minuto di silenzio in ricordo dell’impiccagione, 69 anni fa, di Monsignor Tiso, presentato come “martire della sovranità slovacca e difensore della cristianità dal bolscevismo”. La Camera ha respinto. Nuove paure e buchi neri della Storia, in un’Europa troppo fragile.

Analisi di

28 aprile 2016

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