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La banalità del giusto

di Vincenzo Pinto

Quest’anno, per la prima volta, ho avuto l’onere e l’onore di parlare alla Giornata della Memoria nella cittadina in cui sono cresciuto. Parlo di onere e onore perché, ricapitato per una serie di fatalità nei luoghi che avevo lasciato (o, per lo meno, frequentato solo sporadicamente) vent’anni or sono, ho dovuto interagire con i miei compaesani. Ma che a “livello”? Un mio compagno d’infanzia (Maurizio) mi ha proposto di parlare della Giornata della Memoria e di spiegarne il significato al pubblico della nostra cittadina (cioè di Nizza Monferrato, in provincia di Asti, di recente divenuta patrimonio mondiale dell’Unesco). Per me si è trattato di una sfida: parlare di un tema così delicato è sempre difficile, specie se di fronte a te non ci sono persone informate o appassionate, ma “uomini in grigio”, persone che conducono la loro vita quotidiana senza interessarsi della storia. Il grigio è associato all’indifferenza, al non prendere partito, all’attendismo. Ma dietro a quel grigio, a ben vedere, c’è dell’altro, molto altro.

La Giornata della Memoria è da anni al centro del dibattito dei cosiddetti “portatori di valori”, cioè di quelle persone che, a vario titolo, si sentono incaricate di veicolare la memoria del passato, in particolare di consolidare i migliori valori del proprio Paese di appartenenza (quelli repubblicani e antifascisti, nel caso particolare). Questi “portatori di valori” discutono da tempo se non sia il caso di infliggere una svolta a questo evento (cioè la Giornata della Memoria, incardinata sulla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa), per renderlo qualcosa di più “pregnante”, di più coinvolgente. In altre parole, la Giornata della Memoria dovrebbe “dimenticare se stessa” per rinascere, come l’araba fenice, a nuova vita.

Sebbene molti dei “portatori” concordino sull’esigenza di cambiare le cose (molto banalmente perché la società sta cambiando), le posizioni sulla sorte di questo simbolo sono naturalmente discordanti. Ci sono alcuni che vorrebbero universalizzare la data (coloro che fanno parte, a vario titolo, dell’ala “libertaria”), mentre altri vorrebbero conservarne la peculiarità (coloro che possiamo indicare come ala “etnica”). Ci sono buone ragioni da una e dall’altra parte e, come spesso succede in questi contrasti, sarà la storia politica a stabilire chi l’avrà vinta. Ma non è di questo che intendo parlare, semmai proprio dei soggetti coinvolti nell’organizzazione e nell’allestimento dell’evento.

Quando mi è stato chiesto di organizzare un intervento sulla Giornata della Memoria ero francamente imbarazzato, perché io non mi sono mai occupato seriamente di Olocausto, Shoah, genocidio, ecc. Ho sì collaborato a vari progetti sui deportati italiani (parzialmente al Libro dei Deportati curato da Mantelli e da Tranfaglia e integralmente a Vittime di guerra curato dall’Israt). Ho sì scritto per l’Encyclomedia curata da Umberto Eco (che ringrazio ancora per l’occasione che mi diede) le voci relative Ebraismo, Antisemitismo e Shoah, Medio Oriente e Israele. Ma io resto uno storico del sionismo e dell’antisemitismo. Certo, si potrebbe obiettare che Olocausto e antisemitismo siano strettamente correlati, così come la nascita dello Stato di Israele. Ma era proprio questo il problema: era giusto presentare una scaletta cronologica fatta di concatenazioni evenemenziali discutibili?

È stato mentre preparavo la scaletta dell’evento che ho avuto modo pensare, forse per la prima volta nella mia vita, a che cosa significa trasmettere la memoria. E il pubblico seduto di fronte a me, fatto di persone appartenenti a ogni estrazione sociale, con un’istruzione varia e spesso tutt’altro che “alta”, mi ha dato l’impulso per parlare e per capire. Ho parlato come uno di loro, sono sceso letteralmente dal piedistallo (nel caso specifico l’altare di una chiesa sconsacrata, gestita dall’Accademia nicese Erca) per immergermi in una realtà che non conoscevo più da tempo: quello delle persone di provincia.

L’esperienza è stata umanamente molto importante. Ho avuto modo di capire qual è il grosso limite che attanaglia la Giornata della Memoria: le persone. Chi ha grande potere ha anche grande responsabilità: questo non dovremmo mai scordarcelo. Se la trasmissione della memoria ha un’importanza etica ed educativa, è necessario che coloro che la trasmettono siano persone al di sopra di ogni sospetto. Il potere della parola parlata è certamente maggiore della parola scritta. Soltanto entrando a contatto con l’altro è possibile empatizzare veramente, creare un contatto fra la persona e il valore. Ma questo valore non è più qualcosa di astrattamente giusto, non è più un “dover essere”. Diventa un “poter sentire”. Solo sentendo veramente gli altri è possibile trasmettere i valori. Ma per poterlo fare è necessario (ripeto, necessario) che il portatore dei valori sia al di sopra di ogni sospetto.

Quando ci chiediamo che cosa significhi parlare bene e razzolare male, molti parlano di moralismo, di pericolosa deriva autoritaria, perché la giustizia non è di questo mondo. Perché chi si riempie la bocca di valori è spesso la prima persona che li trasgredisce o li manipola per ottenere più riconoscimento, più successo e più potere. Eppure è proprio sul campo della rettitudine dei portatori dei valori che si misura e si misurerà in futuro il successo della giornata della memoria. Riformarla perché nulla cambi può essere una comoda via di uscita, un rifugio dei peccatori. Specie da parte dei professionisti della memoria, che si interrogano da anni su cosa fare, cosa cambiare, senza mai rendersi conto che forse, semplicemente, la cosa è troppo più grande delle proprie forze, che forse sarebbe bene mettersi da parte e passare il testimone a qualcun altro.

Se la Giornata della Memoria può avere ancor un senso è quello che può esserle dato da persone in grado di parlare a tutti, senza distinzione di colore, di orientamento, ecc. Perché questo sia possibile, però, è necessario che l’interlocutore sappia stabilire un contatto con il proprio uditorio. Questa espressione potrebbe essere ritenuta l’anticamera della peggiore demagogia, dell’ammaestramento delle “masse”. Insomma, la Giornata della Memoria deve essere tolta dalle mani degli “intellettuali del piffero” per essere data al “mago”? Bisogna rinunciare a educare le persone, a mostrare loro i valori, in vista di che cosa? Della banalizzazione dell’evento? Della rinuncia alla storicizzazione?

Le obiezioni nascono proprio da coloro che non hanno la benché minima intenzione di mollare la presa su un evento così importante per la storia dell’umanità. La sua importanza consiste proprio nella sua intima “banalità”. Sappiamo bene che il termine banale è associato al famoso saggio di Hannah Arendt di oltre cinque decenni fa e che, alcuni anni or sono, è stato utilizzato da Enrico Deaglio per descrivere le azioni di Giorgio Perlasca a Budapest durante la Seconda guerra mondiale. Se il male è banale, può esserlo anche il bene, così come il senso di giustizia che è innato in ognuno di noi. Pur soffocato dai mille compromessi dell’età adulta e dalle esperienze della vita, ogni persona cela dentro di sé un potenziale di bontà. Il problema è come ridestarlo a nuova vita. E qui “casca l’asino”.

Cambiamo i programmi, dicono alcuni? Cambiamo i format, dicono gli altri? Facciamo opera di coinvolgimento dei giovani, dicono altri ancora? Tutte le strade portano a Roma, ma in realtà da nessuna parte. La cosa importante, infatti, non è camminare guardando la mèta, ma concentrarsi sulle singole tappe che si stanno affrontando. La tattica deve essere anteposta “strategicamente” alla strategia, perché la giustizia possa trovare maggiore spazio in questo mondo. Ma ecco che è necessario ripensare le persone addette all’evento.

Solo un bagno di umiltà e un esame di coscienza di ciò che si è e di ciò che si è fatto per il bene della quotidianità (prima ancora che dei “supremi valori”) è possibile ottenere il rispetto e la fiducia necessaria a coinvolgere la gente in questa data simbolica, che segna la morte di “persone come noi”, di gente normale che conduceva vite normali. Quella gente che non è affatto “grigia”, come sostengono alcuni daltonici abituati alle brume padane, ma semmai colorata. Ma i colori bisogna saperli vedere. Questa è la vera sfida della Giornata della Memoria, se non vorrà diventare il suo “memento mori”.

Analisi di

25 gennaio 2017

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