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Le pietre d'inciampo e le sorti della memoria

di Anna Foa

Pietre d'inciampo

Pietre d'inciampo

Pubblichiamo di seguito uno stralcio della lectio magistralis tenuta da Anna Foa, storica e docente all'Università La Sapienza di Roma, in occasione dell'incontro al Senato dell'8 novembre scorso, "2010-2016: 500 pietre d’inciampo nella mappa della memoria europea". L'intervento integrale è disponibile nel box approfondimenti

Nel lungo percorso di costruzione della memoria della Shoah le stolperstein, pietre d’inciampo, creazione dell’artista tedesco Gunter Demnig, arrivano per ultime, negli anni Novanta. Siamo ormai in un momento in cui tutto sembra essere stato detto e ricordato e in cui si ha la sensazione di avviarsi nella direzione opposta, verso la perdita della memoria. Dopo la morte di Primo Levi, mentre i testimoni cominciano già a diminuire, e anche dopo la caduta dell’Est comunista, mentre genocidi e violenze ricordano da vicino quello che era accaduto cinquant’anni prima, dal Ruanda a Srebrenica, si pongono domande urgenti e ancor oggi irrisolte.

È infatti solo a partire dal 1995, e in Italia dal 2010, che le pietre d’inciampo hanno cominciato a segnare case e strade delle città, in Italia come in molte altre parti d’Europa. Vere e proprie opere d’arte quali sono, piccole sculture sobrie e discrete, destinate ad essere calpestate perché destinate appunto all’inciampo: inciampo dell’attenzione ma anche inciampo materiale, non destinato a far cadere il passante ma a fargli percepire che là qualcosa è successo che lo chiama. Le pietre d’inciampo segnano lo spazio, mentre i nomi che vi sono incisi segnano il tempo. Il tempo della nascita e della morte di un essere umano, lungo, lunghissimo, brevissimo. Le date ci dicono se da quella porta è passato un neonato ancora incapace di camminare o un vecchio che si appoggiava al bastone, un uomo giovane e forte, una donna incinta. Le due categorie fondamentali dell’essere umano, il tempo e lo spazio, sono compresse dentro quel sampietrino di bronzo, quella scultura. Tempo che si lega allo spazio, in un legame indissolubile che solo consente l’identificazione e la memoria: da quella porta sono usciti, quel giorno erano nati, quel giorno morirono. La memoria torna ai sepolcri disseminati nei pavimenti delle antiche chiese.

Attraverso quelle piccole sculture, pietre che richiamano ad un essere umano, ad una identità, lo spazio si riempie di memorie. Sono memorie anch’esse individuali, anche se messe tutte insieme formerebbero un grande tappeto, ma la loro caratteristica è proprio quella di essere il ricordo ciascuna di una persona, di renderci concreta quella persona a differenza delle grandi lapidi con tanti nomi, anch’esse importanti, ma che hanno una diversa funzione. La funzione delle pietre d’inciampo è quella di dare un nome ad ogni uomo, donna, bambino che ha superato quelle soglie, quei portoni, senza alcuna gerarchia; strappato alla vita da quel luogo e assassinato. Un’etichetta in ottone come quelle messe di fronte alle porte delle case a dirci chi ci abita. Ma su cui il nostro piede inciampa lievemente e la nostra memoria si costruisce e rinnova. Per questo è importante che il piede del passante vi posi, questione tuttavia su cui si è molto dibattuto. Forse quando saremo del tutto consapevoli della loro esistenza impareremo a far scivolare il piede senza toccarle. Ma finché abbiamo bisogno di inciampare dobbiamo calpestarle per farle nostre. Per raggiungere il nome che è sulla pietra. Qualcosa di molto simile succede a Mosca qualcosa di molto simile succede a Mosca, nella cerimonia della restituzione dei nomi, organizzata dall’associazione Memorial, dove una volta l’anno vengono letti per 24 ore i nomi delle vittime del Terrore comunista, in piazza Lubianka, davanti ad una stele di pietra portata dai lager delle isole Solovki.

[…] La costruzione della memoria si avvia così, fin da subito, sia pure con lentezze e incertezze, in stretta connessione al processo di ricostruzione storica. Se ne sostanzia, se ne nutre. Non vi si contrappone. Ed è inoltre, ancora, una memoria comune a ebrei e non ebrei. […]

Nella costruzione del processo memoriale italiano, gli anni Settanta sono quelli in cui si costruisce lo specifico oggetto Shoah. Non ha ancora quel nome, o almeno ben pochi lo intendono, ed anche fino alla fine degli anni Settanta il nome con cui continuerà ad essere designato lo sterminio, nell’area linguistica anglosassone, Olocausto, non è molto diffuso. L’idea che si tratti di una Cosa a sé, distinta radicalmente dalle altre atrocità di una guerra rivolta contro i civili, non nasce tuttavia in Italia. È in Israele il processo Eichmann a sottolineare l’identità specifica dello sterminio degli ebrei, coi suoi cento sopravvissuti venuti a testimoniare. È inutile sottolineare qui il valore politico, di riunificazione identitaria, del processo Eichmann, anche se ci piace ricordare, come voce fuori dal coro, quella di Hannah Arendt. Sono gli Stati Uniti a raccoglierne il legato. Nel 1967, l’anno della guerra dei Sei Giorni, a mostrarci il nesso con gli sviluppi della memoria in Israele, Elie Wiesel sostiene, contro le tesi universalistiche di Georges Steiner, che la Shoah è stato un fenomeno unico, assolutamente specifico, l’esito della guerra di Hitler contro gli ebrei, per riprendere il titolo del libro che scriverà nel 1975 una storica, Lucy Dawidowicz.

Gli storici accompagnano il dibattito di romanzieri e filosofi. La memoria si costruisce in stretto nesso con l’identità. Sono gli anni in cui, sull’onda del femminismo e delle storie delle minoranze, il recupero identitario si afferma con forza. L’affermazione decisa dell’unicità della Shoah, la sua trasformazione, nei decenni successivi, in una sorta di dogma, trae linfa da questa connessione tra identità e Shoah, non dalla storiografia. Fanno eccezione opere come quelle di Saul Friedlander e poche altre, in cui il richiamo all’unicità si sostanzia di storia. Perché è pur vero che questa memoria identitaria ha elementi forti di realtà su cui costruirsi. Come tutti i genocidi della storia, tutti diversi nelle loro modalità, lo sterminio nazista degli ebrei è assai specifico: è il frutto finale della concezione del predominio ariano e del razzismo nazista, si concretizza nei campi destinati al solo sterminio, fenomeno questo davvero unico, sposta masse di donne vecchi e bambini per avviarli alle camere a gas. Inoltre, in quel momento l’idea che si sia trattato di un fenomeno qualitativamente diverso dai massacri, dalle deportazioni, dalle violenze contro i non ebrei ha un effetto di forte accelerazione della costruzione memoriale. All’intuizione che ci si trovava di fronte ad una Cosa che aveva mutato il corso della storia e costretto tutti a fare i conti con se stessi e con gli altri, si sostituiva un oggetto definito, che gli storici potevano ricostruire e i sopravvissuti ricordare e narrare: la Shoah, l’Olocausto. Il mai più nasce in questo contesto.

[…] Mentre l’unicità della Shoah, intorno agli anni Novanta, ha ormai assunto le caratteristiche di un dogma, nutrito dell’idea dell’esaltazione della vittima, l’universo concentrazionario diventa un puzzle di diversità da ricostruire e ricreare. Chi è stato più vittima, ci si domanda. Ma la concorrenza delle vittime è una domanda priva di senso, sia storico che di memoria. Perché, dal punto di vista dello storico, nessuno ha mai negato le diversità della sorte tra gli ebrei e le altre componenti dell’universo concentrazionario (con l’eccezione dei rom e dei sinti, tuttavia) e da quello memoriale chi può sostenere che la morte non abbia la stessa dignità quando si parla delle vittime di situazioni estreme?

Così si è dipanata una memoria complessa e potenzialmente conflittuale. Dico potenzialmente, perché le contraddizioni di questa memoria, le sue difficoltà, la necessità di allargarne i confini, di non rinchiuderla a conferma identitaria, sono state a lungo riassorbite dal consenso collettivo creatosi su questo trauma, divenuto fondante della nostra cultura di europei. Non mi riferisco naturalmente, parlando di contraddizioni, a fenomeni di vero e proprio antisemitismo, come il negazionismo, ma del confronto con gli altri genocidi che hanno costellato il Novecento, prima e dopo la Shoah. Il genocidio armeno è stato riconosciuto con difficoltà come un fenomeno della stessa natura della Shoah, anche se nei ghetti in Polonia sotto l’occupazione nazista gli ebrei riconoscevano nel genocidio degli armeni la sorte che sarebbe toccata a loro e leggevano avidamente il romanzo di Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, per ritrovarvi la loro storia. Più difficile è stato riconoscere nella Cambogia di Pol Pot e nel Ruanda molte delle caratteristiche del genocidio degli ebrei, e molte sono state le accuse di appiattire l’unicità della Shoah. E ancora più silenzioso il confronto con il genocidio in atto, quello della Siria. E intanto, non si può fare a meno di domandarsi a cosa serva, a cosa sia servita la memoria, se i genocidi continuano e noi continuiamo a tacere. Se, per dirla ancora con Levi, continuiamo a non ricordarci “che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.

Ma infine, a che serve la memoria? Vogliamo davvero usarla per rafforzare la nostra identità? Non credo che sia questo il suo scopo. Le identità coltivate con ostinazione sono pericolose, portano altrove, lontano dalla solidarietà verso l’altro e dalla volontà di impedire altre violenze. Può anche essere vero che dopo la distruzione di tanta parte del mondo ebraico europeo il bisogno di rinsaldare l’identità fosse primario, ma ormai il problema sembra superato. O serve ad impedire che eventi come questo succedano di nuovo, tralasciando il fatto evidente che, sia pur in dimensioni più ridotte, continuano a succedere? Lo stampo del genocidio non si è rotto con la nostra elaborazione memoriale. Dove abbiamo sbagliato? Come abbiamo sbagliato? E abbiamo davvero sbagliato, o non abbiamo fatto abbastanza?

Certamente, abbiamo sbagliato quando abbiamo pensato o lasciato pensare che la memoria riguardasse gli ebrei e solo gli ebrei. Essa riguarda tutti, riguarda anzi più i non ebrei che gli ebrei. Prima che delle vittime, è memoria della storia di quanti hanno lasciato che accadesse come di quanti vi si sono opposti. Certo, è anche la piaga aperta delle vittime. Ma è soprattutto memoria di tutti gli altri, quelli che il loro nome, la loro appartenenza, non destinava per ciò stesso ai campi di sterminio. Questo è un punto fondamentale senza il quale la memoria stessa diventa un ghetto.

Siamo in un momento di grande confusione. Molta parte di quello che la generazione nata dopo la guerra ha costruito sta andando in frantumi. Lo spessore storico si annulla in una sorta di esaltazione del presente. Sei ora, non sei quello che il passato ti ha fatto. Se cancelli la storia, quale sarà la sorte della memoria? Può anche sopravvivere, ma diventerà vuota celebrazione, retorica. Si perdono, non possono non perdersi per ovvi motivi generazionali, i ricordi vivi dei testimoni. Le facce del passato si confondono, le persone scompaiono. Restano solo fantasmi privi di carne e sangue.

Eppure, dobbiamo farle ritornare reali, reinfondere loro la vita. Cessare di considerarli numeri e vederli come persone. Le pietre d’inciampo sono un mezzo, un mezzo efficace oltre che poetico, per restituire quella carne e quel sangue. Vogliono riportare in vita i morti, gli scomparsi, sottrarli alla cancellazione. Sono concrete. Sono testimonianze senza testimoni. Sono durature come il bronzo di cui sono ricoperte. Sono più facili da leggere dei grandi monumenti. Ci avvicinano a delle persone vere, vive. E sono rivolte a tutti, ricordano sulla soglia della loro casa tutti quelli che i nazisti e i loro servi fascisti hanno portato via dietro le canne dei fucili. Non solo gli ebrei, ma “tutti i deportati, per dirla con Adachiara Zevi e il suo bel libro Monumenti per difetto: razziali, politici, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova”. Ricordano tutti, fanno inciampare tutti e ricordano a ognuno, al turista come al distratto abitante della casa, che lì è passato un essere umano destinato alla morte per assassinio. Il suolo dove sono inserite diventa un teatro della memoria. Per questo le pietre d’inciampo possono ora che ci avviciniamo alla fine della testimonianza diretta tramandare la memoria reimmettendo nella nostra quotidianità di oggi gli orrori di un passato sempre più lontano nel tempo. L’arte, attraverso queste opere d’arte, dimostra non solo che non è morta ad Auschwitz (e non basterebbe per ricordarcene guardare alla Crocefissione Bianca di Chagall?) ma che può essere per se stessa creatrice di memoria.

Grazie per questa creazione all’architetto Denmig e a quanti, a cominciare da Adachiara Zevi, danno la loro mente e la loro opera a questo straordinario monumento diffuso nel suolo delle città.

Anna Foa

Analisi di Anna Foa, storica

17 novembre 2016

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