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Marek Edelman, eroe del Ghetto

editoriale di Francesco M. Cataluccio

Marek Edelman, è morto venerdì sera a Varsavia, all’età di 87 anni, circondato dai suoi amici. Era uno dei pochi sopravvissuti dell’eroica insurrezione del Ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943: uomini e donne che, certi di essere votati allo sterminio per mano dei nazisti, decisero di morire con le armi in pugno, mettendo in scacco per parecchie settimane l’esercito nemico e dando un segnale di coraggio e dignità a tutta l’Europa.
Il giovane comandante Edelman, era stato nel dopoguerra uno dei migliori cardiologi polacchi, primario dell’Ospedale di Łódź. Al primo approccio, poteva sembrare aggressivo come solo i timidi sanno essere, cinico e sprezzante nel volersi difendere dalla fama di “eroe”, a volte ingiusto nei giudizi verso altre persone, che si erano date la morte nel Ghetto (di Anielewicz disse: “non bisogna suicidarsi, ma lottare fino all’ultimo”, e di Czerniakow: “era una persona onesta, ma con il suo suicidio ha trasformato l’ordine di annientare l’intera popolazione del ghetto in una sua vicenda privata, e ha sprecato una pallottola”). Ma, dopo un po’, diventava amichevole e scherzoso, dolcissimo e premuroso come i medici all’antica, freddo e lucido nelle analisi.

Edelman non è stato un eroe di una volta sola: una vita sempre all’opposizione. Socialista in gioventù (faceva parte del partito socialista ebraico, Bund), dopo la guerra fu tra i primi a dar vita al movimento dei dissidenti e poi fu uno dei dirigenti di Solidarność. Si è sempre battuto per tutti gli oppressi. Negli anni Novanta, fece suo lo slogan “Sarajevo come il Ghetto di Varsavia”. Quello che colpiva, sia negli incontri ufficiali che nelle conversazioni private, era il suo atteggiamento antiretorico, volutamente e orgogliosamente modesto: “Non facemmo niente di particolare (...). La mia non è una testimonianza sulla bravura militare. Probabilmente eravamo bravi. E con ciò? Siamo stati sconfitti lo stesso. La mia è una testimonianza sui valori, sugli uomini e le donne, sull’amore e la politica, sui legami fraterni” (M. Edelman, H. Krall, Il ghetto di Varsavia. Memorie e storia dell’ insurrezione, Città nuova, Roma 1993). In modo sincero ha sempre spiegato molte sue scelte, e dei suoi compagni di lotta, non con motivazioni ideologiche, ma amorose: “Ero deciso a rimanere a Varsavia, non solo per motivi politici, ma anche sentimentali. Ero innamorato” (R. Assuntino, W. Goldkorn, Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio editore, Palermo, 1998). Anche la questione dell’amore, nella degradazione fisica e morale del Ghetto è stato il segno dello “sguardo diverso” di Edelman e della sua accanita volontà di mostrare la “normalità” della tragedia. Nel suo ultimo libro, C’era l’amore nel ghetto (2009, che verrà pubblicato da Sellerio il prossimo novembre), con delicatezza ma anche con la consapevolezza di sfatare un pregiudizio tragico, Edelman ha lasciato un messaggio di speranza sull’ostinata forza dei sentimenti e dell’attrazione fisica anche in mezzo al trionfo della morte.


Spiazzanti erano i suoi aneddoti e i commenti che ne dava: “Sono tornato in Israele nel gennaio 1997 (...). In quell’occasione, a Gaza, ho incontrato Arafat. Mi ha detto: ‘Noi lottiamo per gli stessi valori per i quali Lei ha combattuto’. Mi è sembrata una persona onesta”. Una volta gli chiesi perché dopo tutto quello che aveva passato (compresa la campagna antisemita delle autorità comuniste nel 1968 che lo fece cacciare dall’ospedale e l’internamento nella prigione di Leczyca, dopo il colpo di stato del 1981) non se ne fosse andato dalla Polonia. La risposta che ricevetti, con una smorfia, fu la solita, come se fosse la più naturale del mondo: “Il mio compito è quello di fare la guardia alle tombe del mio popolo”.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

4 ottobre 2009

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