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Nome in codice: Caesar. La tortura nelle carceri siriane

di Anna Foa

Dal 5 al 9 ottobre si è tenuta al Maxxi di Roma un’esposizione dedicata alla Siria. In mostra alcune fotografie di detenuti torturati e assassinati nelle prigioni siriane di Assad, scattate fra il 2011 e il 2013 da un ufficiale della polizia militare siriana per ordine del suo governo. Nel gennaio 2014 l’ufficiale fotografo è fuggito in Occidente, portando con sé 55000 foto, 28000 delle quali di cadaveri. Una Commissione internazionale ne ha dichiarato l’autenticità, e una parte delle immagini sono state messe in mostra al Palazzo di Vetro dell’ONU, alla Commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al Museo dell’Olocausto di Washington e nelle principali capitali europee. Ora, anche a Roma, senza tuttavia grande pubblicità e al di fuori delle sedi istituzionali - non si sa perché.

Dico subito che le foto sono raccapriccianti, guardarle è difficile e di fronte a quelle bacheche vorresti solo chiudere gli occhi e cercare di dimenticare che cosa l’uomo riesce a fare agli altri uomini. Impressiona anche molto il fatto che si tratti di foto prese dagli autori di quegli omicidi per documentare e riordinare i morti fatti. Il ricordo torna immediatamente alle foto che i fotografi delle SS scattavano sull’orlo delle fosse in Polonia o sulle rovine del ghetto di Varsavia. Ritroviamo la stessa ossessione di documentare i propri atti, anche se forse in questo caso siriano prevale, sull’orgoglio del Male, l’intento burocratico di amministrare la morte. Colui che ha scattato queste foto ha pensato, fuggendo e portandole con sé, di denunciare il genocidio condotto da Assad contro il suo popolo. Ma nessuno è sembrato indignarsene, o almeno non troppo. Torna alla mente Jan Karski, ufficiale polacco, Giusto tra le Nazioni, che cercò invano - portando informazioni raccolte personalmente sul ghetto di Varsavia sullo sterminio degli ebrei - di mobilitare i capi di governo alleati. Invano, perché nessun Paese voleva apparire in guerra a difesa degli ebrei e nessun aereo bombardò, ad esempio, le linee ferroviarie per Auschwitz. La lezione di ieri, e forse anche quella di oggi, è che si combatte solo le battaglie che si vogliono combattere, che si ha interesse a combattere, non importano le foto dei massacrati, i documenti, i fatti accertati.

Le foto scattate da Caesar smantellano anche la tesi di quanti sostengono che in fondo Assad è meglio dell’ISIS, che rappresenta un elemento di stabilità. Tesi che mi ricorda il “Morire per Danzica?” La verità è che la guerra in Siria non è una guerra tra Assad e l’ISIS. Assad ha inizialmente, nel 2011, quando è scoppiata la rivolta dei siriani per la democrazia e la libertà, liberato dalle sue carceri i terroristi islamici perché si unissero alle forze ribelli e dimostrassero al mondo che si trattava di una guerra contro il terrorismo. A lungo ha attaccato e bombardato i ribelli facendo attenzione a non attaccare direttamente l’ISIS. Ora Putin lo appoggia e bombarda con lui, sotto il velo della lotta contro il terrorismo, un popolo: donne, bambini, civili.

Ugualmente, non crediate che le foto di Caesar ritraggano terroristi uccisi nelle carceri: nella stragrande maggioranza, oltre il 90%, sono persone qualunque, civili desiderosi di qualche libertà e incappati nella volontà del dittatore siriano di distruggere il suo stesso popolo. Pur di restare attaccato al potere, Assad sta compiendo un genocidio, un “auto genocidio” come Pol Pot. Le foto ci ricordano il Ruanda, ci ricordano Srebrenica. Di nuovo, confrontiamo i genocidi sul terreno, nelle immagini che i media ci trasmettono, nelle foto d’archivio dei dittatori. Di nuovo ci troviamo di fronte a un genocidio in atto e non lo combattiamo perché siamo stati convinti che Assad sia, nonostante tutto, il male minore.

Gli anni passano, i morti si accumulano, la Siria è distrutta, milioni di persone sono in fuga. La diplomazia internazionale è sconfitta, e ogni minuto che passa la situazione peggiora. Pagheremo la nostra indifferenza, la nostra ignavia, la nostra incapacità di comprendere. Non è una minaccia, o non lo è più. È un dato di fatto. Purtroppo.

Anna Foa

Analisi di Anna Foa, storica

10 ottobre 2016

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