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È utile la Giustizia Internazionale?

editoriale di Ulianova Radice e Anna Maria Samuelli

L’arresto in Serbia di Ratko Mladic dopo quindici anni di latitanza, e il suo trasferimento all’Aja in base ad un atto di accusa emesso nel 1995 dal “Tribunale Internazionale per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia”, hanno riaperto il dibattito sulla legittimità e sui limiti della Giustizia Internazionale, in particolare sui rapporti tra politica e giustizia.
Di fronte alla gravità dei capi di imputazione (crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio) la reazione della piazza di Belgrado alla notizia dell’arresto ha suscitato sconcerto: Mladic invocato come eroe di guerra, con la conseguente trasformazione del carnefice in vittima e la contemporanea delegittimazione del Tribunale Internazionale competente. Nell’anniversario della firma a Roma dello Statuto istitutivo della “Corte Penale Internazionale” è utile chiedersi se questo tipo di organismi giudicanti sovranazionali siano indispensabili, o almeno necessari, oppure superflui se non addirittura dannosi, come qualcuno sostiene.
Già agli inizi del ventesimo secolo le potenze vincitrici della prima guerra mondiale avevano incaricato una “Commissione Alleata” di studiare l’istituzione di una “Corte Internazionale di giustizia penale” per punire i capi politici e militari degli Imperi centrali e i crimini contro le “leggi di umanità”, ma il progetto era fallito, schiacciato da esigenze “superiori” di ordine diplomatico e militare. Tuttavia la sola intenzione spinse il Sultano dell'Impero Ottomano, determinato ad anticipare la Commissione Alleata, a formalizzare nel 1919 a Costantinopoli la Commissione Mazhar per punire i responsabili dei massacri contro gli armeni da parte del governo dei Giovani Turchi.
La prima esperienza significativa di Tribunale sovranazionale, pur se militare e non civile, è quella della Corte di Norimberga per i crimini commessi dai nazisti, costituita dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Un analogo tribunale fu istituito per le stesse finalità a Tokyo. Con la definizione di genocidio adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 si pose all’ordine del giorno l’esigenza di un tribunale penale sovranazionale, che tuttavia non fu possibile concretizzare per la tenace resistenza dei singoli Stati a rinunciare alla propria giurisdizione nell’esercizio dell’azione penale, per di più nel quadro che si andava delineando della guerra fredda.

)Soltanto negli anni ’90 è tornata alla ribalta l’istituzione di un tale tribunale, sull’onda dell’emozione suscitata dal genocidio ruandese - che ha visto in cento giorni lo sterminio di un milione di tutsi nell’inerzia delle grandi potenze - e dalla pulizia etnica nei Balcani dopo il traumatico smembramento della Federazione Jugoslava. Nel 1993 l’Onu ha istituito ad hoc un “Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia” con sede all’Aja, per perseguire gli autori della pulizia etnica, mentre ad Arusha, in Tanzania, l’anno successivo ha iniziato a operare il “Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda”. Contemporaneamente, il graduale processo di pacificazione in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, ha portato alla creazione da parte dello Stato nazionale di una “Commissione per la verità e la riconciliazione” equiparabile a un vero e proprio tribunale deputato a indagare e giudicare sulle violazioni dei diritti umani in quella società. Nel 1998, sulla base di tali esperienze, in seno all’Onu è stato trovato l’accordo per l’istituzione di un organismo che avesse giurisdizione sui reati correlati ai crimini contro l’umanità. Lo Statuto della “Corte Penale Internazionale” è stato firmato a Roma il 17 luglio ed è entrato in vigore nel 2002 a seguito del raggiungimento delle 120 adesioni, pur con significative eccezioni, come Stati Uniti, Turchia, Cina, Giappone, Israele. La sede è stata fissata anche in questo caso all’Aja. Sottoscrivendo tale accordo gli Stati firmatari si sono assunti la responsabilità di cooperare concretamente con una realtà giuridica che oltrepassa il loro ordinamento, rinunciando alla parte di giurisdizione relativa ai crimini di competenza della Corte. Spesso i governi non hanno espresso alcuna volontà politica di processare gli autori di crimini contro l’umanità e questo ha contribuito a creare una cultura della impunità intorno ai fatti più gravi
riguardanti lo sterminio di propri sudditi e propri cittadini. L’istituzione di un organismo sovranazionale permette che questi crimini non restino impuniti nell’interesse dell’intera comunità internazionale. Per questo possiamo rispondere alla domanda iniziale affermando che in alcuni casi il ruolo della Corte è indispensabile e che sempre essa risponde al necessario compito di realizzare i principi e egli scopi della Carta delle Nazioni Unite, organismo nato dopo il trauma della Seconda guerra mondiale per trovare soluzioni condivise alle tensioni internazionali, nel tentativo di evitare il ripetersi delle tragedie del Novecento. Come la realtà statuale risulta il frutto di un patto tra cittadini e istituzioni, in cui i cittadini rinunciano a una parte di libertà per avere in cambio un livello adeguato di convivenza civile in grado di garantire lo sviluppo del benessere di tutti, così una realtà sovranazionale nasce dall’aspirazione dei singoli Stati a un equilibrio stabile in cambio della rinuncia a una parte del proprio potere. Anche perseguire i responsabili di crimini contro l’umanità può essere considerato un valido contributo al mantenimento della pace nella democrazia delle istituzioni internazionali. Inoltre tali crimini vengono solitamente commessi in realtà autoritarie, dove chi detiene il potere non ha alcun interesse ad affrontare la problematica relativa alla condanna dei responsabili, mancando un confronto democratico sulle dinamiche politiche e sociali. In tali situazioni è venuto meno il “contratto sociale” tra cittadini e Stato, poiché i detentori del potere non hanno perseguito il bene comune, ma hanno agito contro una parte della popolazione. Non vi è, in questi casi, una legittimità di governo che giustifichi l’invocazione alla “non ingerenza” e la presenza di un organismo sovranazionale costringe a misurarsi con un consesso più ampio, interessato a sanzionare le condotte repressive e antidemocratiche. Solo quando una società trova all’interno la forza di affrontare le proprie ferite, esaminando nel confronto democratico le responsabilità e le dinamiche che hanno prodotto la violenza, con la conseguente sanzione dei colpevoli, il ricorso alla Corte internazionale può apparire superfluo, come nel caso citato del Sudafrica. Purtroppo ciò avviene molto raramente. Una volta stabilita l’importanza di un tale organismo, non possiamo comunque nasconderci i problemi che rimangono sul tappeto. Innanzitutto il pericolo di una “delega in bianco” alla giustizia per la soluzione di problematiche che riguardano specificatamente l’ambito della politica, con il risultato di un’abdicazione della stessa al proprio ruolo nel dirimere le questioni internazionali relative agli Stati responsabili di crimini contro l’umanità. Oltre al pericolo, sempre in agguato, dell’influenza preponderante di alcuni Stati di maggior peso nel condizionare le decisioni dei giudici. Infine esiste il problema della mancanza di una legislazione articolata e di una giurisprudenza consolidata sui reati di competenza della Corte, tanto più urgente quanto più si allarga la consapevolezza della sua funzione e si estende la sua credibilità. Questo anche a fronte della necessità che la produzione giuridica che le compete venga presa ad esempio dagli Stati “giuridicamente” giovani e meno attrezzati nella difesa degli spazi di salvaguardia della sfera dei diritti dell’individuo. Costituire un codice penale internazionale articolato e universalmente riconosciuto non è impresa facile e soprattutto apre il problema del rapporto tra giustizia e legalità. È pensabile l’istituzione di una commissione ONU che possa verificare la conformità dei codici e delle costituzioni dei singoli stati alle norme fondamentali di libertà e giustizia contemplate dalla carta dei diritti universali dell’uomo? Di fronte alla composizione di talune commissioni delle Nazioni Unite, in cui prevalgono Stati notoriamente poco inclini al rispetto dei principi democratici, che criteri dovrebbe seguire tale organismo? Le inquietanti reazioni di piazza di Belgrado alla notizia dell’arresto di Ratko Mladic fanno pensare a quanto sia ancora lunga e impegnativa la battaglia contro gli estremismi e i nazionalismi, e contro la mancanza di fiducia nelle realtà sovranazionali e nella possibilità di regole condivise. Nella ex Jugoslavia confini e territorio sono stati difesi con la guerra e alcuni personaggi privi di scrupoli hanno inseguito il consenso popolare con cumuli di menzogne mascherate da amor di patria.
Per questo è urgente riprendere il preambolo contenuto nello Statuto di Roma della “Corte Penale internazionale” permanente, che ci ricorda come “i delitti più gravi che riguardano l'insieme della comunità internazionale non possono rimanere impuniti e che la loro repressione deve essere efficacemente garantita” e che dobbiamo essere “determinati a porre termine all'impunità degli autori di tali crimini contribuendo in tal modo alla prevenzione di nuovi crimini”.
L’applicazione di tali principi, di fronte alle repressioni in atto in tante parti del mondo, a cominciare dal nostro Mediterraneo, è un compito a cui la comunità internazionale non deve sottrarsi.

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