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Václav Havel, quel grande giovane che manca all’Europa

di Gabriele Nissim

Vaclav Havel

Vaclav Havel

Il 5 ottobre Václav Havel avrebbe compiuto ottanta anni. A lui dobbiamo la battaglia contro la rassegnazione a Praga dopo l’invasione sovietica nel 1968, la nascita del movimento di Charta ‘77, la fine del comunismo in Cecoslovacchia, il divorzio indolore tra cechi e slovacchi dopo l’89, quando nello stesso tempo scoppiava la sanguinosa guerra delle nazioni nell’ex Jugoslavia, la riunificazione dell’Europa divisa dalla politica imperiale di Mosca.

A lui dobbiamo un pensiero politico di grande spessore e di straordinaria attualità. Egli ha insegnato il valore della resistenza morale in un sistema totalitario. Mentre oggi con un click su Facebook si pensa di potere cambiare il mondo, standosene comodamente davanti a un computer, Havel negli anni 70 invitava i cittadini ad aggiungere il proprio nome al manifesto dei firmatari della Charta, per dimostrare che era possibile rifondare dal basso una nuova vita sociale e politica che mettesse al centro il valore del dialogo, dell’amicizia e del rispetto dei diritti umani.

Havel aveva fatto suo il pensiero di Hannah Arendt e di Aleksandr Isaevič Solženicyn, secondo cui il potere comunista non era né una macchina invincibile, né un mostro demoniaco, ma una struttura molto fragile che si reggeva su un consenso passivo delle persone.

Se da un giorno all’altro - era il suo messaggio negli anni Settanta, nel suo testo fondamentale Il potere dei senza poter­e - i cittadini di Praga avessero cominciato a vivere nella quotidianità una vita diversa basata su nuovi valori, a poco a poco il potere si sarebbe eroso e si sarebbe trovato solo, fino all’esaurimento della sua forza.

Havel, a differenza di quanto credono oggi i grillini in Italia, non pensava che il cambiamento potesse avvenire dall’occupazione del potere dall’alto con la semplice sostituzione ai vertici dei disonesti con gli onesti, ma riteneva invece che fosse necessario avviare un grande percorso educativo con una lenta maturazione dal basso della società.

Se infatti non cambiava il modo di vita delle persone nella società civile, il potere politico non si sarebbe mai riformato. Per Havel, antigiacobino, non si trattava di conquistare il palazzo, come del resto avevano fatto i comunisti, ma di seminare con molta pazienza nuove pratiche di vita.

Ecco perché, non solo da un punto di vista tattico, Charta ‘77, il movimento da lui diretto, non chiedeva mai apertamente il cambiamento del sistema politico, perché andare troppo in fretta non solo avrebbe portato alla sconfitta politica, ma non avrebbe creato le condizioni di una maturazione morale del Paese. Prima di tutto bisognava costruire una nuova vita, non più basata sulla corruzione delle persone, ma incentrata sulla autenticità e sulla ricerca di una verità, e poi si poteva arrivare al cambiamento dei vertici.

Havel però, quando invitava i giovani praghesi a vivere la verità, non parlava di una verità assoluta e definitiva, perché pensava che la verità fosse sempre parziale e in movimento. Egli amava il gusto del dialogo e il piacere di vivere la pluralità umana. Ecco perché nel movimento di Charta ‘77 si trovarono insieme uomini e intellettuali completamente diversi - liberali, socialisti, comunisti ebrei, cattolici, protestanti -, ma uniti dal destino comune della propria dignità, umanità e parzialità. Nessuno dei partecipanti era preoccupato di imporre all’altro in modo autoritario il proprio punto di vista, perché era convinto che la verifica delle proprie opinioni poteva risultare soltanto da un dialogo ininterrotto con chi la pensava diversamente e dalla verifica continua in un’esperienza comune. Erano soltanto i risultati e le buone opere che testimoniavano la validità o meno del proprio pensiero.

Mentre oggi in Europa, ancora una volta, va di moda l’idea del nemico contro cui combattere (i politici per i grillini e gli indignati, la comunità europea per i leghisti e i fanatici alla Le Pen e alla Farage, i migranti per gli xenofobi) Havel pensava, invece, che l’idea di Europa (con la fine del comunismo) significasse il superamento dell’avversario da demonizzare e la creazione di un orizzonte di condivisione. Un nuovo potere democratico si poteva creare nella storia quando gli uomini decidevano di fare le cose insieme, e non quando si combattevano tra di loro, illudendosi di potere fare a meno degli altri e di essere gli unici depositari del giusto e del vero. Era il riconoscimento delle proprie fragilità e parzialità che creava le condizioni del dialogo e della condivisione, perché da soli non si andava da nessuna parte. Era allora molto popolare a Praga il motto “la solidarietà degli spossati”, per indicare la forza che può nascere dai più deboli.

Havel avrebbe compiuto ottanta anni, ma sarebbe oggi il più giovane degli europei, non solo perché era un grande amante del jazz e del rock (in particolare di Frank Zappa), e aveva il gusto di una vita piena, ricca e spensierata.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, mentre mi portava a visitare con grande soddisfazione la vita culturale clandestina, i teatri e i concerti volanti, e rideva della mia piccola videocamera Sony che avrebbe permesso di fare circolare all’estero delle piccole cassette con delle immagini che i funzionari, digiuni delle nuove innovazioni tecnologiche, non sarebbero stati capaci di immaginare.

Havel sarebbe ancora tanto giovane, perché di fronte alla crisi dell’Europa, non si sarebbe depresso, come se si trattasse di un destino ineluttabile e segnato che porta il nostro continente alla decadenza e alla divisione, ma si sarebbe rimboccato le mani con lo spirito di Charta ‘77. Come ieri era stato possibile sconfiggere a Praga una dittatura durata quasi mezzo secolo, ancora oggi la rivoluzione morale dei senza potere potrebbe accendere la fiamma dell’Europa. Chi ama il gusto della democrazia e la ricchezza della pluralità umana non può sottrarsi a questa sfida.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

4 novembre 2016

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