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Giovanni Palatucci (Montella, Italia, 1909 - Dachau, Germania, 1945)

il questore di Fiume che aiutò gli ebrei

Giovanni Palatucci nacque a Montella (Avellino) il 29 maggio 1909 in una famiglia molto religiosa – ben 3 zii, infatti, intrapresero la carriera religiosa: furono francescani e uno di loro, Giuseppe Maria, divenne vescovo di Campagna (Sa) dal 1937 al 1961 - e certamente l’ambiente familiare influenzò l’animo di Giovanni, inculcandogli abnegazione e amore per il prossimo. Dopo aver conseguito la maturità classica da privatista al liceo Torquato Tasso di Salerno, nel 1928, si iscrisse al corso di laurea in giurisprudenza prima all’Università di Pisa, poi di Napoli, per proseguire e ultimare gli studi a Torino, dove si era trasferito per assolvere il servizio militare come volontario nella scuola allievi ufficiali di complemento della vicina Moncalieri. Dopo la laurea, avvenuta nel 1932, svolse il tirocinio forense ma presentò poi domanda per l’assunzione nell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza e, dopo il superamento del concorso, ebbe nel 1936 il suo primo incarico presso la Questura di Genova, come volontario vicecommissario aggiunto.

Nel luglio del 1937 rilasciò un’intervista pubblicata in forma anonima su un giornale cittadino (il Mercantile di Genova) in cui criticava coraggiosamente l’Amministrazione di appartenenza, accusandola di burocratismo e distacco dai problemi dei cittadini. L’intervista suscitò grande scalpore tra i suoi superiori che, venuti molto presto a conoscenza dell’identità dell’autore, per punizione ne decisero il trasferimento, nel novembre del 1937, alla questura di Fiume (l’odierna Rijeka, oggi in Croazia). Questa città dagli importanti trascorsi economici e commerciali era diventata parte del Regno d’Italia nel 1924 e presentava ancora evidenti gli effetti di un contrasto etnico non sopito presente nel territorio del Friuli-Venezia Giulia tra gli italiani e gli sloveni-croati. 

A Fiume, Palatucci fu assegnato come responsabile all’ufficio stranieri della Regia Questura e a lui competeva - tra l’altro - il compito di vidimare i permessi di soggiorno per gli spostamenti degli ebrei (divenuti - di fatto - “stranieri” nel loro paese). Palatucci si prodigò per portare aiuto dapprima agli ebrei stranieri che, abbandonando i territori soggetti ai tedeschi, chiedevano di poter entrare in Italia attraverso il valico di Fiume, e poi dal 1938, a seguito del Manifesto della razza del 15 luglio e delle cosiddette Leggi razziali del novembre dello stesso anno, anche alla drammatica posizione dei cittadini italiani di origine ebraica ormai oggetto di pesanti discriminazioni. Negli anni dal 1938 fino al 1943-1944 Palatucci si trovò di fronte alla realtà dei profughi ebrei (provenienti dall’Austria e poi da Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Jugoslavia) che attraversarono di frequente i confini in modo clandestino pur di sottrarsi all’internamento. Per questi profughi gli ordini di Mussolini prevedevano l’espulsione e la consegna ai nazisti. Era poi significativa la realtà degli ebrei della città di Fiume e dintorni (circa 1600 persone) che, nel 1938, con le leggi razziali, si trovarono quasi tutti privati della cittadinanza italiana e che, dunque, per viaggiare verso le altre province italiane dovevano avere il visto di autorizzazione di Palatucci. 

Nel 1941, dopo lo smembramento della Jugoslavia, attaccata dall’esercito italiano e da quello tedesco, alcuni territori furono annessi all’Italia e qui i governanti applicarono agli ebrei locali la stessa politica persecutoria razzista in atto nel paese dal settembre del 1938, estendendo il provvedimento di internamento degli ebrei stranieri in atto in Italia fin dal giugno del 1940. Erigere campi di internamento sul posto divenne, però, per questioni di vettovagliamento e di sicurezza, un problema e, per tale ragione, i colpiti da questo provvedimento furono per lo più trasferiti in Italia, e inizialmente rinchiusi nel campo di internamento di Ferramonti (Cosenza) o di Campagna (Salerno), da cui vennero ritrasferiti, in condizione di “internati liberi”, in domicilio coatto in paesini isolati del Centro e del Nord Italia. In particolare, Palatucci cercò con ogni stratagemma di farli avviare verso il campo di internamento di Campagna, che si trovava nella diocesi dello zio vescovo: lì sapeva che le condizioni di vita degli internati sarebbero state alleviate dallo zio, con il concorso della popolazione locale che accolse generosamente gli internati. A Campagna, infatti, si trovava un campo di internamento costituito da due caserme: San Bartolomeo (ex convento dei Domenicani) e dalla caserma Immacolata Concezione (ex edificio claustrale degli Osservanti). Molte le differenze tra Campagna e gli altri campi di internamento, come si rileva da varie testimonianze e da una lettera che nel 1941 il segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena, scrisse al Capo della Polizia Carmine Senise in cui si lamentava della “troppa libertà in cui vivono gli internati ebrei del campo di concentramento di Campagna" chiedendo "provvedimenti conseguenti da parte delle forze di polizia del regime”.

Tutto ciò fino all’8 settembre 1943, quando la situazione degli ebrei a Fiume, come in tutta l’Italia, subì un ulteriore aggravamento. Infatti, dopo l’armistizio, il 1° ottobre del 1943 fu istituita la Zona d'Operazioni del Litorale Adriatico e il territorio venne posto sotto diretto controllo tedesco al comando di Rainer, affiancato per i compiti di repressione da Globocnik, che aveva guidato l’Aktion Reinhardt nei campi di Sobibor, Treblinka, Belzec e Majdanek. Fiume, pur inclusa nella Repubblica Sociale Italiana, entrò di fatto a far parte di questa Zona. Il comando militare della città fu assegnato al capitano delle SS Hoepener. La comunità locale, divenuta un “alleato-occupato”, si trovò in una condizione molto dura. In quel momento, gli ebrei presenti a Fiume erano circa 3.500: in gran parte profughi provenienti da Croazia e Galizia. Quando i tedeschi presero possesso di Fiume, le loro forze di polizia avocarono le funzioni della questura, relegando al ruolo di mera esecuzione di ordini la polizia italiana, alla quale furono sequestrati armi, munizioni e automezzi. Mentre gli altri funzionari della polizia di Fiume si fecero trasferire presso sedi dislocate nella neonata R.S.I, Palatucci preferì invece restare. 

Rimasto il funzionario più alto in grado, gli vennero affidate le funzioni di vicequestore prima e di Questore reggente poi. In questo contesto poté continuare nella sua opera di soccorso ai profughi ebrei, sottraendoli anche alla deportazione e, secondo alcune testimonianze, entrò nel movimento clandestino di liberazione sotto il nome di “dott. Danieli”. Violando le leggi razziali vigenti, Palatucci si esponeva a gravi rischi ma, pur avendone la possibilità, non volle porsi in salvo in Svizzera, come gli fu proposto da un console svizzero suo amico. Venuto sempre più in sospetto alle autorità militari tedesche, arrivò perfino a distruggere gli elenchi degli ebrei in suo possesso, in modo da renderne impossibile l’individuazione e la cattura. Tradito da un suo collega, la notte del 13 settembre 1944, su ordine dell’autorità nazista, Palatucci venne arrestato con l’accusa gravissima di “intelligenza e cospirazione con il nemico”. Subito dopo, fu interrogato con i metodi riservati ai traditori. Torturato, non fece alcun nome né di colleghi a lui vicini, né di oppositori al nazionalsocialismo e alla R.S.I. esterni alla Questura, né di ebrei. Un riscontro lo si ricava dal fatto che dopo il suo arresto non venne operato alcun fermo.

Dopo essere stato imprigionato per circa 40 giorni nel carcere Coroneo di Trieste, venne deportato a Dachau, dove giunse il 22 ottobre 1944. Qui divenne numero di matricola 117826 e, in quanto internato politico di nazionalità italiana, indossò una casacca con un triangolo rosso avente al centro la lettera I.

Morì il 10 febbraio 1945 per l’epidemia di tifo petecchiale che imperversava nel campo dal dicembre precedente e fu sepolto nella fossa comune sulla collinetta di Leitenberg, situata a circa un chilometro dal campo di concentramento. 78 giorni dopo sarebbe avvenuta la liberazione di Dachau da parte delle truppe americane

Qualche anno dopo la morte giunsero i riconoscimenti dell’operato di Palatucci, dapprima da parte ebraica, poi anche da parte italiana. Nel 1953, a Ramath Gan, cittadina alle porte di Tel Aviv, gli fu dedicata una via, la Rechov Hapodim, fiancheggiata da 36 platani, uno per ogni anno della sua vita; nel 1955 gli fu intitolata una foresta nei pressi di Gerusalemme e l’Unione delle comunità israelitiche (oggi ebraiche) italiane gli assegnò una medaglia d’oro alla memoria. Il 12 settembre 1990 lo Yad Vashem di Gerusalemme gli conferì il titolo di «Giusto tra le Nazioni».

Nel 1995 il Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro conferì alla memoria di Palatucci una medaglia d’oro al merito civile e nel 2002 il Tribunale diocesano del Vicariato di Roma aprì il processo canonico di beatificazione del «Servo di Dio Giovanni Palatucci”, che si concluse in tempi rapidissimi il 10 febbraio 2004 con la trasmissione degli atti alla Congregazione delle cause dei santi per la fase successiva. Nel 2006 furono concesse due medaglie d’oro al merito civile: il 25 settembre alla città di Campagna, il 12 dicembre alla memoria dello zio vescovo, per la loro azione di assistenza e salvataggio degli internati operata di concerto con Palatucci. Negli anni sono state intitolate a Palatucci strade e sedi di commissariato della Polizia di Stato in numerose città d’Italia e il 29 maggio 2009 le Poste italiane hanno emesso un francobollo commemorativo a suo nome in occasione del centenario della sua nascita.

Secondo alcune fonti, egli contribuì a mettere in salvo circa 5000 profughi ebrei, ma altre ricerche hanno ridimensionato questi dati, rilevando come Palatucci non sarebbe stato nella posizione di aiutare così tanti perseguitati. L’equivoco sarebbe sorto nell’agosto 1945 a Londra, alla prima Conferenza ebraica mondiale, quando il delegato italiano Raffaele Cantoni, accennando al salvataggio di circa 5000 ebrei a opera dell’armata alleata, menzionò anche Palatucci, ma senza fare un collegamento diretto.

Nel 2013 la figura di Palatucci è stata al centro di aspre polemiche suscitate dalla campagna di stampa scaturita dalle ricerche del Primo Levi Center di New York, che ha messo in discussione la fondatezza della fama di salvatore di migliaia di ebrei del funzionario di polizia che, anzi, sarebbe stato addirittura da considerarsi un collaborazionista.

Il prof. David Cassuto, membro della Presidenza del Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme ha esaminato il caso e ha concluso che "non c'è nessuna novità, o presunta tale, che giustifichi un processo di revisione del riconoscimento di Giusto fra le Nazioni conferito a Giovanni Palatucci il 12 settembre 1990”. Approfondimenti successivi, curati da una Commissione promossa dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane insediatasi presso il Cdec di Milano, che ha passato al vaglio tutte le nuove acquisizioni, si sono conclusi con un comunicato che sancisce un nulla di fatto. La Commissione ricorda le testimonianze di diversi esponenti della comunità ebraica in favore di Giovanni Palatucci, e conclude che “con le informazioni ritrovate negli archivi italiani e in quelli esteri, pare difficile sostenere la tesi che Giovanni Palatucci non fu un “Giusto”.

Resta in piedi invece la diatriba sui numeri, ma su questo sarà difficile fare chiarezza. Secondo Settimio Sorani, presidente della Delasem, la società di assistenza ebraica, Palatucci era il referente unico dell’organizzazione che a Fiume si trovò ad ospitare migliaia di ebrei in fuga dal regime degli ustascia e a cui debbono aggiungersi un numero indeterminato di persone non registrate perché entrate in Italia illegalmente, senza regolari visti d’ingresso. Dunque, il commissario Palatucci si trovò coinvolto in una vasta rete di soccorso che provvedeva ad allontanare nascostamente gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati.

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