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Ubaldo Pesapane (1907 - 1980)

lo "scrivano" di Flossenburg che aiutò gli ebrei

Foto tratta dal volume "Nella memoria delle cose", Archivio storico Bolzano, 2009

Foto tratta dal volume "Nella memoria delle cose", Archivio storico Bolzano, 2009

Testimonianza della figlia Giovanna Pesapane - Milano, 24 maggio 2013

Nato da una famiglia dell’alta borghesia napoletana, la cui storia si intreccia con quella politica del nostro Paese nel periodo che precede la caduta del Regno dei Borboni e l’unità d’ Italia, nacque il 20 maggio 1907 a Palermo soltanto perché la madre, come era d’uso a quei tempi, andò a partorire a casa dei genitori che abitavano in quella città. Il nonno, di professione magistrato, era in quegli anni Presidente della Corte d’Appello.

Rimasto orfano di padre a soli sei anni crebbe, per necessità, col fratello minore a Livorno in un collegio gestito dalle Ferrovie dello Stato e nonostante avesse vissuto al nord fin dalla più tenera età aveva conservato il calore e la simpatia della sua gente, del napoletano signore, del napoletano verace. Conseguita la licenza liceale, avrebbe desiderato studiare medicina ma non avendo la madre - che dopo la morte del marito manteneva la famiglia lavorando come scrivana giusto negli uffici delle Ferrovie dello Stato - la possibilità economica di mantenerlo all’università, su consiglio dello zio ufficiale di Marina, il ragazzo entrò all’Accademia Militare di Modena intraprendendo così la carriera militare

Dopo il matrimonio, trasferitosi con la famiglia a Torino, frequentò con successo la Scuola di Guerra conseguendo una brillante carriera tanto da risultare a quel tempo l’ufficiale di Stato Maggiore più giovane d’Italia. Appassionato di storia e di musica, suonava il pianoforte e l’organo, avendo a lungo studiato durante gli anni di collegio con un valente insegnante, ma non riuscì mai a coltivare queste sue passioni dato che il periodo non certo facile lo portò, dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, al fronte prima in Grecia e Albania e successivamente, nominato Capo di stato Maggiore della Divisione Eugenio di Savoia, in Croazia.

Là lo colsero i terribili eventi successivi all’8 settembre 1943. Fuggito con pochi ufficiali a lui sottoposti, per scampare alla cattura dei tedeschi, si rifugia sull’Appennino tosco-emiliano dove la famiglia era sfollata. Avvertito della denuncia al Comando tedesco come ufficiale renitente riesce a sfuggire alla cattura e si dirige al nord.

Non fu mai fascista ma amava tanto la sua Patria che, comandato, non esitò ad entrare clandestinamente nel Comitato di Liberazione Nazionale (CNL), contravvenendo ai suoi interessi personali, alla sua sicurezza e a quella della sua famiglia. Presentatosi quindi al Comando Militare della Repubblica di Salò e reintegrato nel suo grado di Maggiore di Stato Maggiore, cominciò l’attività di spionaggio clandestino che, in seguito alla denuncia di un altro ufficiale suo antico compagno di Accademia, lo portò ad essere arrestato, detenuto per circa due mesi nel carcere di San Vittore a Milano, poi come prigioniero politico nel Campo di transito di Bolzano e infine spedito insieme a un carico di altri sventurati, ebrei e altri diversi, con i vagoni piombati atti a questo scopo, al Lager di sterminio di Flossenburg dove rimase per otto interminabili, tragici mesi di orrore.
Qui i prigionieri, come d’uso, venivano denudati e spogliati di tutto e avviati quali moderni schiavi a lavori talmente gravosi da portarli entro poco tempo alla morte per fame e sfinimento.

Nella vita ci vuole, anche nelle eventualità più tragiche, un pizzico di fortuna. Mio padre ebbe una banale opportunità che servì a salvargli la vita. Aveva una calligrafia molto personale, incisiva e volitiva, e sapeva riprodurre perfettamente ogni carattere calligrafico eccellendo nell’ordine con cui disponeva le stesure.

Un giorno accadde l’imponderabile. Il Capo Campo indisse (se così si può dire) un concorso per la ricerca di uno scrivano che avrebbe dovuto redigere la lista dei morti giornaliera. Mio padre si presentò e per le sue straordinarie doti calligrafiche fu scelto.

Ogni sera veniva rinchiuso con altri due disgraziati in una baracca piena di cadaveri (all’incirca da 300 a 400). Dopo averlo spostato dal mucchio, da ogni singolo cadavere doveva trascrivere il numero di matricola. Terminato il macabro lavoro, rinchiuso nell’ufficietto della Schreibstube, doveva compilare minuziosamente la lista dei morti della giornata risalendo ai dati anagrafici contenuti nei registri. Al mattino la lista doveva coincidere perfettamente a quella del giorno precedente. Era la ferrea organizzazione tedesca, minuziosa fino alla pedanteria applicata anche all’orrore. Divenne così “l’uomo dei morti”.

Ma fu la sua fortuna. Lavorando di notte, sia pur nella situazione atroce descritta, terminato il lavoro poteva dormire dal mattino successivo fino al pomeriggio, essendo così meno esposto alle angherie e alle torture perpetrate di giorno a tutti i prigionieri.

Potendo così, nella sua posizione di scrivano, accedere ai registri segreti del campo, aiutò a rischio della propria vita diversi compagni ebrei. Era facile per lui far "morire sulla carta” un ebreo attribuendogli l’identità di qualcuno che non fosse della razza odiata, e dandogli forse così una lontana possibilità di sopravvivere. Nel piccolo ufficio, durante le notti del suo lavoro, mio padre cominciò a stilare un altro elenco segreto: quello degli italiani morti in quel campo. Voleva che, qualora fosse ritornato, i fratelli italiani spariti nel fumo di un camino avessero un nome.

Nella sfortuna fu fortunato. Non si ammalò del micidiale tifo petecchiale e non fu mai ricoverato nella famigerata Revier, l’infermeria dove impazzava un soldato SS con ambizioni medico-chirurgiche. Generalmente lì si entrava vivi e si usciva squartati.

Mio padre si salvò resistendo alla carneficina della “marcia della morte”, la marcia forzata durante la quale furono trucidati circa diecimila uomini, quando, ormai allo stremo, fu liberato insieme a pochi sventurati sopravvissuti da una Divisione Corazzata americana. Dopo il viaggio fortunoso attraverso una Germania distrutta, arrivò in Italia il 20 maggio 1945. Gli elenchi - depositati presso la Croce Rossa Internazionale di Milano - e la sua testimonianza furono importantissimi per le centinaia di famiglie che, contrariamente, non avrebbero più saputo niente dei loro cari.

Il cammino della sua rinascita fu lungo e difficile. Flossenburg gli aveva rubato l’anima.

Non si ritenne mai un eroe, non si vantò mai per nulla del bene che aveva fatto, semplicemente perché era ciò che doveva essere fatto. Non approfittò mai della tragedia subita per avere favori o posti di rilievo anche avendo conosciuto personalmente e frequentato, in seguito agli avvenimenti della sua vita avventurosa, quasi tutti i personaggi che nel dopoguerra divennero coloro che “contavano”, non approfittò mai di queste conoscenze per interesse personale. A quel tempo, nonostante il Processo di Norimberga ai criminali nazisti avesse fatto scalpore, l’opinione pubblica mai valutò in pieno la tragedia degli uomini e delle donne sopravvissuti alla fabbrica degli orrori. Erano considerati semplicemente dei reduci dalla prigionia. Nessuno, anche con la più sfrenata immaginazione, avrebbe mai potuto concepire simili orrori.

Al suo ritorno, nonostante gli atti di estremo patriottismo fu molto deluso dall’Esercito, fu messo sotto inchiesta per aver giurato per la Repubblica di Salò e, per essere scagionato e dimostrare di aver fatto parte del CNL e aver subito la tragedia del Lager, dovette ricorrere alla testimonianza dei pochi compagni di sventura. Per questa ragione con dolore diede le dimissioni e ricominciò da capo nella vita civile, conseguendo poi ragguardevoli posizioni come Direttore del Personale in importanti aziende industriali.

Come tutti coloro che avevano subito le medesima tragedia non raccontò molto, voleva solo dimenticare. Morì anzi tempo a Milano a soli settantatre anni.

Vedo nell’uomo che fu mio padre una persona di valore che, pur con i suoi difetti umani e i suoi dubbi, intelligente e di grande spessore, onesto, coraggioso, generoso, ma soprattutto giusto, perseguì i suoi ideali, i suoi principi con ostinazione senza mai tener conto del proprio interesse personale.


Bibliografia
- Carla Giacomozzi, Nella memoria delle cose, Donazioni di documenti dai Lager all'Archivio Storico della Città di Bolzano, 2009
- Giovanna Pesapane, Anni Quaranta. I dieci anni che hanno cambiato il mondo, Libreria Bocca Editore, Cremona, 2010

Segnalato dalla figlia Giovanna. Candidatura proposta per il Monte Stella nel 2012

Giardini che onorano Ubaldo Pesapane

Trovi un albero nel Giardino Virtuale Storie del Monte Stella.

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