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​Fuga per la salvezza nella Croazia occupata

intervista a Zeev Milo

Zeev Milo con il Presidente di Gariwo Gabriele Nissim

Zeev Milo con il Presidente di Gariwo Gabriele Nissim (Gariwo)

Zeev Milo ha 93 anni. Figlio di mugnai croati, ebreo scampato alla Shoah grazie alla fuga nella zona italiana della Jugoslavia, da 65 anni vive a Tel Aviv dove ha sempre lavorato come ingegnere nell’esercito di Israele. Per gratitudine verso chi lo ha salvato, ha pubblicato vari libri sulla sua storia. L’ultimo in ordine di tempo è Bravi italiani: la resistenza italiana contro l’Olocausto in Croazia. Storie ed esperienze personali pubblicato dalla Società di studi fiumani. Di seguito presentiamo un’intervista all’autore, che parla tedesco, la lingua di suo nonno, e non si rifiuta di parlarlo dopo tutto ciò che i nazisti hanno fatto “perché è l’unica lingua straniera che conosco bene”.

Ing. Milo, com’era la situazione in Croazia sotto il nazismo?

Nello Stato satellite di Croazia creato da Hitler nell’aprile 1941 gli ustascia, un movimento fascista formatosi all’estero, in Italia, e sostenuto da Mussolini, cominciarono ad assassinare in massa gli ebrei, i serbi e in seguito i rom. Per famiglie ebraiche come la mia era possibile trovare protezione e sicurezza soltanto nella zona occupata dagli italiani. Infatti i croati erano d’accordo con i tedeschi di riconsegnare gli ebrei che si trovassero a piede libero ai nazisti. L’amministrazione italiana non era monolitica come quella tedesca e, accanto agli esecutori degli ordini di Hitler, vi si trovavano persone meno ostili agli ebrei.

Lei degli ustascia ha scritto che sono la dimostrazione che un movimento terrorista non può costituire un governo stabile.

Gli ustascia erano dei terroristi responsabili dell’assassinio del re di Jugoslavia. E quando arrivarono al potere crearono una condizione di terrore continuo, perché quella era la loro natura. Ci furono lager, torture, eccidi di massa, deportazioni nei lager dell’Europa centro-orientale. Non mancò nessun aspetto della macchina di distruzione nazista.

Che cosa succedeva nella zona sottoposta all’amministrazione militare italiana?

Lo “Stato indipendente di Croazia”, come si chiamava questa zona, era soggetto a pressioni da parte tedesca affinché consegnasse gli ebrei. Politicamente, la pretesa trovò un Duce indebolito e ansioso di compiacere i tedeschi. Ma a livello dei militari, ci furono anche casi di opposizione e rifiuto. C’era chi vedeva compiersi la “soluzione finale” sotto gli occhi degli italiani e non ci stava, non voleva macchiarsi dei crimini nazisti. Ci fu un tiro alla fune al massimo livello che durò mesi. Anche se il mito degli italiani “brava gente” è stato sfatato agli inizi del 2005 da un convegno all’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte, tuttavia in Jugoslavia, Francia e Grecia non furono rari i casi di ufficiali italiani che protessero i rifugiati ebrei.

Lei dice che molti soldati aiutavano gli ebrei a fuggire in cambio di denaro, ma c’era anche qualcuno mosso da autentica compassione. Vuole spiegarci? Può fare qualche nome?

Nomi non posso farne perché erano carabinieri, normalmente non venivano conosciuti per il nome. Dopo la guerra gli italiani sono tornati tutti al loro Paese e io non mi sono occupato di rintracciare i soldati “giusti”. Tuttavia la mia famiglia è stata aiutata almeno da una funzionaria di polizia, che con lo stratagemma di chiamare una collega al telefono distrasse gli altri funzionari e ci permise di trafugare dei moduli che servirono alla nostra salvezza; una guardia di confine slovena; un sottoufficiale dei carabinieri italiano, che ci fece passare nella zona italiana dicendo: “Croati, cattolici, ariani” laddove eravamo ebrei e lui lo sapeva. Se avesse detto la verità, saremmo finiti ad Auschwitz con i cinque membri della mia famiglia che vi furono deportati.

Volevo proprio conoscere la storia della sua famiglia.

Noi avevamo un grande mulino in provincia di Zagabria. Eravamo ricchi e rispettati, inoltre eravamo una famiglia molto unita, legata da un vincolo speciale d’affetto. Mi ricordo in particolare di mio nonno, che aveva già 85 anni, faticava a muoversi ed era la ragione per cui non eravamo molto propensi a emigrare. E uno zio rimasto sempre celibe che io, che allora avevo circa 19 anni, veneravo. Nell’estate 1942 i tedeschi iniziarono ad attuare il piano per eliminare gli ebrei nell’Europa occupata. In Croazia ebbe luogo un grande rastrellamento, non verso i lager degli ustascia, soprattutto Jasenovac, come in precedenza, bensì soprattutto ad Auschwitz. Questo dipendeva sempre dagli accordi tra croati e tedeschi. Noi allora non ne sapevamo nulla. Furono arrestati alcuni dei nostri parenti più stretti: i miei nonni, mia zia e altri due zii. Ciò fu come un fulmine a ciel sereno per la nostra famiglia. Nel nostro mulino si era installato un ufficiale incaricato di controllare l’attività e noi. Quando sapemmo che i nostri parenti erano nel campo di transito di Osjek cercammo di convincere questo ufficiale ad aiutarci. Gli demmo una grossa somma di denaro, ma lui la tenne per sé. Alcuni giorni dopo i nostri familiari vennero trasportati ad Auschwitz. Mio nonno morì sul treno. Nessuno di oltre mille ebrei croati rastrellati in quei giorni è tornato.

Avevate paura?

Una paura terribile.

Che cosa avete fatto voi superstiti?

A questo punto è accaduto qualcosa di insperato. Una nostra conoscente ci mise in contatto con l’impiegata della polizia che le ho menzionato prima, disposta ad aiutarci a fuggire nella zona italiana. Purtroppo le firme sui moduli erano falsificate talmente male che chiunque avrebbe potuto accorgersene. Ma non avevamo scelta, dovevamo tentare. Il primo ustascia che incontrammo non si accorse di nulla, ma una volta entrati nella zona italiana il carabiniere al confine si accorse del falso. Si mise i nostri documenti in tasca e proseguì il controllo degli altri viaggiatori. Poi si allontanò un attimo, e infine tornò in compagnia di un gendarme croato. Questo gendarme per fortuna si limitò a rivolgere qualche domanda a mio padre, disse al carabiniere che non c’erano problemi e alla fine anche il carabiniere ci fece passare. Giunti a Cirquenizza (Crikvenica), dove c’erano molti profughi ebrei, apprendemmo che dopo il 1° settembre 1942 era entrato in vigore l’ordine di non fare entrare nella zona italiana più nessun profugo. Fu qui che ci riuscì fortunosamente di spacciarci per croati e cattolici. Allora questo era molto pericoloso: si rischiava addirittura la pena di morte. E qui incontrammo il sottoufficiale italiano dei carabinieri che pronunciò le fatidiche parole: “Croati? Cattolici? Ariani?”. Confermammo con un cenno del capo e fummo salvi. Ci aveva messo le risposte in bocca anche per sottoscrivere la nostra dichiarazione nei documenti. Rimanemmo in salvo in questa zona, occupata dagli italiani, fino alla capitolazione dell’Italia nel settembre 1943. Noi intendevamo recarci a Novi Vinodol, un paesino distante dieci chilometri da Cirquenizza, dove amici zagabresi ci avevano messo a disposizione una casa. Gli italiani erano intenti in grandi operazioni contro i partigiani di Tito e avevano vietato ogni movimento di civili, per cui dovemmo rimanere a Cirquenizza per cinque settimane, durante le quali soffrii di appendicite e fui aiutato da medici italiani che non vollero accettare alcun compenso.

In questa occasione lei si fece un’idea dell’esercito italiano. Ce la vuole spiegare?

In viaggio passò accanto a noi un treno militare, probabilmente diretto al “fronte” contro i partigiani. Gli ufficiali avevano libretti di preghiere e rosari e sembravano rispettosissimi delle tradizioni, ma stanchi di combattere e desiderosi che la guerra finisse al più presto. Erano in fondo dei commercianti. I soldati italiani vendevano sigarette e un miscuglio alimentare con cui nutrivano i loro muli, ma che servì anche a sfamare molta gente immiserita dalla guerra. Molti di loro si fidanzavano con ragazze croate, nonostante la popolazione fosse per lo più ostile agli occupanti. Ma non bisogna credere che l’occupazione italiana fosse un’allegra operetta: si trattava di 20.000 soldati italiani impegnati nella lotta contro i partigiani a fianco dei cetnici e delle forze armate tedesche e croate. Gli italiani erano spietati contro i loro nemici e contro coloro che sospettavano di esserlo. I filo partigiani venivano spietatamente torturati. Ci furono numerosissime fucilazioni. Il comandante della II armata, Gen. Ambrosio, fu responsabile di ordini brutali per la repressione degli antifascisti. Ma a un altro capo militare, il Gen. Roatta, va attribuito il merito di aver rifiutato di consegnare i profughi ebrei provenienti dalla Croazia ai croati o ai tedeschi per la “soluzione finale”. Allora gli ebrei rischiavano sia il provvedimento tragico del respingimento, sia di essere direttamente consegnati ai nazisti. Ma Roatta non indietreggiò davanti al saccheggio e ai metodi più spietati contro i partigiani. Tuttavia i crimini di guerra degli italiani non sono paragonabili per dimensioni e crudeltà a quelli commessi dai tedeschi. 

Carolina Figini

22 giugno 2015

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