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A Praga 40 anni fa il processo ai The Plastic People of the Universe

primo segno di opposizione duratura al regime

Dei cechi si dice che siano un popolo dotato di un talento speciale per la musica. Sarà, forse, anche per questo che gli scricchiolii della fine del regime, lenta ma inesorabile, risuonarono per la prima volta esattamente 40 anni fa, il 21 settembre 1976, durante il processo politico contro la band underground dei The Plastic People of the Universe.

Quel giorno, davanti alla Pretura di Praga, si radunarono 150 persone assai variegate tra loro, a cominciare da alcuni ex dirigenti del partito comunista, epurati dopo il 1968, come František Kriegel, l’unico che nell’agosto del 1968, a Mosca, si rifiutò di firmare il consenso all’occupazione della Cecoslovacchia. Ma anche giornalisti occidentali e attivisti per i diritti umani, insieme a numerosi “capelloni” amanti della scena musical rock underground. Václav Havel capì subito che l’insperato e vivo interesse di un pubblico così assortito e disomogeneo, tra i quali molti rischiavano pesanti ritorsioni manifestando in pubblico il proprio coinvolgimento a favore dei Plastic People, era il segno che i tempi erano maturi perché accadesse finalmente “qualcosa”, e che quel processo poteva diventare la miccia capace di innescare la disgregazione del vecchio ordine politico e sociale della Normalizzazione. Per questo motivo, prestò al processo massima attenzione e si adoperò affinché la notizia della farsa giudiziaria che il regime stava inscenando contro i The Plastic People of the Universe arrivasse in tutto il mondo. Fu grazie anche ai suoi sforzi coraggiosi che l’evento diede l’avvio alla formazione della prima opposizione duratura e organizzata contro il regime.

Alla sbarra degli imputati l’ex giornalista Ivan Jirous, il poeta e performer Pavel Zajíček, il giardiniere e musicista Vratislav Brabenec e il pastore evangelico Svatopluk Karásek, tutti giovani trentenni incensurati accusati di aver osato quello che altrove sarebbe passato del tutto inosservato: aver partecipato ai concerti che Jirous organizzava senza il consenso del controllo ideologico sulla cultura. Nella sua Relazione sul terzo risorgimento musicale ceco Jirous aveva infatti teorizzato che, laddove il regime aveva occupato tutti i canali ufficiali della comunicazione pubblica, gli artisti e gli uomini liberi avevano il diritto e il dovere di creare dei canali propri senza compromessi, foss’anco in condizioni molto modeste e precarie.

Nel marzo 1976, la polizia politica aveva deciso di intervenire e soffocare questa piccola bolla di libertà sotterranea arrestando una ventina di persone durante un festival segreto organizzato in occasione delle nozze dello stesso Jirous. Ma, inaspettatamente, gli intellettuali dell’opposizione presero apertamente le parti degli arrestati mettendo in piedi una grande campagna di protesta che attirò l’attenzione di numerose personalità della vita pubblica in Occidente. Il regime si spaventò e fece un passo indietro rilasciando 16 dei 20 arrestati. Il 21 settembre iniziava contro i rimanenti 4 il processo che avrebbe cambiato la Cecoslovacchia.

Le accuse erano molto vaghe, i testimoni incerti e le deposizioni contraddittorie, mentre gli imputati sembravano ben preparati a difendere la libertà di espressione artistica, formalmente riconosciuta anche dal regime. Presto, però, fu chiaro che la sentenza era già stata scritta prima ancora che iniziasse il processo farsa il cui scopo era solo di legittimare la condanna. Infatti, indipendentemente dalle prove mancanti e dal risultato più che dubbio delle udienze, la corte confermò l’accusa di “vandalismo organizzato”, il reato impugnato più spesso dal regime contro ogni tipo di dissidenza. Ma un primo risultato i dissidenti lo raggiunsero comunque: la grande campagna a favore degli imputati fece sì che il tribunale non ricorse ai limiti massimi di pena, accontentandosi di punire Jirous con una pena di 1 anno e mezzo e con una di 8 mesi gli altri. L’accusa strumentale era che “i colpevoli” non avevano il permesso di suonare e che non si trattava di eventi privati (l’escamotage tradizionalmente utilizzato per aggirare la legge) perché erano accessibili al pubblico. Inoltre, venivano loro rinfacciati, oltre l’uso di parolacce, i risultati delle perizie degli “esperti” del ministero della cultura secondo i quali i testi delle loro canzoni erano “antisocialisti, decadenti, nichilisti, anarchici e clericalisti”. Per dare un’idea della “giustizia” del regime si ricordi che queste perizie vennero presentate alla fine dell’udienza senza che gli avvocati difensori avessero la possibilità di esprimersi in merito, né tantomeno reagire.

Ma oramai gli ingranaggi della Storia si erano messi in moto. La settimana successiva, grazie soprattutto ai contatti di Havel, la notizia aveva fatto il giro dei media occidentali, Le Figaro, Liberation, El Pais, Die Zeit. In novembre la condanna fu confermata dalla Corte d’Appello, ma già dopo un mese e mezzo nasceva Charta 77.

Numerose erano le strade attraverso le quali i cittadini cecoslovacchi cercavano di sfuggire al peso soffocante della censura ideologica. Per molti fuggire nelle isolate casette di campagna (abitudine ancora oggi molto diffusa) era un modo per riconquistare uno spazio privato tra le persone più vicine. Altri, per realizzarsi senza dover scendere a compromessi con il regime, si dedicavano appassionatamente agli hobby e ai passatempi più vari, tra i quali, appunto, la musica. Probabilmente i comunisti non avevano del tutto messo in conto che l’irrealistica pretesa di avere un totale controllo orwelliano, prima o poi, avrebbe comunque finito per provocare una necessaria controreazione. Per quanto il rock underground fosse un genere musicale assai lontano dai gusti della maggioranza, il fatto che fosse improvvisamente diventato oggetto di persecuzione probabilmente risvegliò qualcosa nelle coscienze di molti che iniziarono a sentire troppo vicino il fiato ingombrante del regime. Ogni sistema sociale, a maggior ragione uno a tenuta stagna come quello totalitario, necessita di valvole di sfogo per la decompressione dell’insoddisfazione repressa. Lo sapevano bene gli antichi romani con il loro panem et circenses. Ebbene, in qualche modo, bene o male, il regime assicurava il pane e il lavoro per tutti, ma quando iniziò a stringere le maglie intorno al circenses, qualcosa si ruppe. Nel grigio e monolitico cemento socialista si aprì una crepa che, di lì a 13 anni, ne avrebbe decretato il crollo.

In chiusura, un evento tanto assurdo quanto rappresentativo di quel periodo che di logico aveva ben poco: un giorno, nel carcere dove erano detenuti i membri della band, un giovane, presentatosi come il cugino di Jirous, chiese di poter visitare i detenuti. Gli fu concesso. La sera stessa, dopo aver trascorso mezza giornata con loro, quel giovane scrisse un reportage dettagliato e approfondito sul processo farsa che, subito il giorno dopo, fece il giro del mondo sulle onde radio di Free Europe e Voice of America. Non avendo nessuno dei preposti una sua foto né sapendo che volto avesse, i secondini del carcere non potevano sapere che quel giovane si chiamava Václav Havel, il temuto leader del movimento dissidente, esponente di spicco di Charta 77, nonché futuro presidente della Cecoslovacchia (dal 1993 Repubblica ceca) liberata. Un evento paradossale pienamente degno delle stesse opere teatrali di Havel, un po’ come il famoso aneddoto della handycam Sony trafugata nel 1986 da Gabriele Nissim. Ma questa è un’altra storia...

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