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Il giusto della politica

i dissidenti e lo spazio pubblico nell'ultimo libro di Sante Maletta

Non è facile parlare del giusto ― dell’essere umano giusto ― dal punto di vista filosofico. Sicuramente più agile è il percorso di una riflessione sul giusto inteso come concetto, se non altro perché la riflessione etico-politica degli ultimi decenni lo ha percorso in lungo e il largo. Ma parlare dell’uomo giusto sembra sconfinare su un terreno sdrucciolevole, dove la giustizia si incontra necessariamente con la bontà. E per il senso comune l’uomo buono è sempre più un “buon uomo”, vale a dire uno stupido.

Eppure, per quanto ineffabile, il giusto si dà: “Le persone buone esistono, sono reali. E tutto ciò che è reale è possibile” (Á. Heller). Il principale merito di Ga.Ri.Wo. sta proprio nell’aver mostrato questo. Esistono nelle circostanze più estreme ― i lager nazisti e comunisti ― come nelle vicende quotidiane. È assai probabile che nella tua famiglia e nel tuo ufficio ce n’è sia qualcuno all’opera, anzi: la tua famiglia e il tuo ufficio stanno in piedi grazie a loro. Il mondo intero si regge sui giusti, anche se spesso non è capace di riconoscerli. Ecco perché la saggezza ebraica ci ricorda che è peccato uccidere: potresti eliminare (senza nemmeno saperlo) uno dei pilastri su cui poggia la nostra vita comune.

Proprio perché il giusto è un oggetto opaco, occorre che la riflessione filosofica abbia l’umiltà di piegarsi al dato storico, di mettere in gioco le pre-concezioni teoriche per interrogarsi in merito alle sue condizioni di possibilità. È ciò che ho cercato di fare ne Il giusto della politica. Il soggetto dissidente e lo spazio pubblico (Mimesis, Milano 2012). In questo volume cerco di imitare il gesto teorico che Hannah Arendt compì nel 1962 a Gerusalemme assistendo al processo Eichmann. Di fronte alla “stupidità” dell’imputato, ella mise in discussione la propria nozione di “male radicale” per elaborare quella ― assai controversa e tanto contestata ― di banalità del male. Ma soprattutto si lasciò investire dalla domanda in merito alle condizioni di possibilità del comportamento di coloro che non avevano voluto collaborare con il nazismo, che ella chiamava non-partecipanti. Ecco che negli ultimi anni della sua vita Arendt ci lascia una serie di scritti ricchi di intuizioni che ho cercato di sviluppare criticamente. In particolare valorizzo l’idea avanzata da Arendt in una celebre lettera a Gershom Scholem che solo il bene possa essere radicale, in quanto ha delle radici nell’animo. Per usare un linguaggio un po’ desueto ma preciso, ciò che caratterizza l’essere umano buono è l’anima, vale a dire una profondità fatta di memoria, immaginazione, empatia e dialogo tra sé e sé. Ciò che Arendt sostiene è che tale profondità spirituale, che si sviluppa lontano dall’agonismo dello spazio pubblico, può di per sé avere dirette conseguenze politiche nei casi estremi in cui lo spazio pubblico è ridotto ai minimi termini, come accade nei regimi totalitari. Più in generale, Arendt riattualizza una tesi antica tanto quanto la nostra tradizione filosofica, che tra polis e psiche (tra città e anima) v’è una intrinseca solidarietà, vale a dire che una non si regge senza l’altra.

Arendt non ebbe il tempo di sviluppare ulteriormente tale discorso. Cerco di farlo io con l’aiuto di altri pensatori. Innanzitutto con Alasdair MacIntyre, il quale offre una fenomenologia della vita morale assai rigorosa e mostra che le società liberali contemporanee tendono a impedire lo sviluppo di una soggettività sufficientemente profonda capace di ospitare il bene. Di converso, il filosofo scozzese esplicita le condizioni di possibilità di un essere umano giusto, tra cui la principale è individuata nell’esistenza di forme comunitarie di vita sociale.

Il legame tra spazio pubblico e soggettività emerge quindi come filo rosso del libro. Un legame che si afferma inaspettatamente ma logicamente nell’analisi dei martiri filosofici del dissenso ceco, Jan Patočka e Václav Havel. È forse questa la sezione più originale del volume, non tanto per merito dell’autore quanto per l’inquietante ignoranza che ancora circonda tale figure di primo piano del Novecento europeo e mondiale. Il pensiero ma ancora di più la biografia di tali personaggi sembrano confermare la tesi suddetta che l’anima (di cui Patočka teorizzava la “cura”) può avere effetti inaspettati sul piano politico, in primis et ante omnia nella ricostituzione di quello spazio pubblico senza cui politica non si dà. Un problema che permane anche dopo l’ingloriosa caduta dei regimi comunisti europei.
 

18 ottobre 2012

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