Olek Mincer
Qualche anno fa avevo urgenza di stare più spesso vicino a mia madre a
Varsavia. Il destino ha voluto che proprio in quel periodo Agnieszka Holland avesse deciso di girare il suo film In Darkness,
sul salvataggio di un gruppo di ebrei da parte di un ispettore delle
fogne di Leopoli. La mia famiglia è proprio di Leopoli; di tutti i miei
parenti rimasti in città durante l’occupazione nazista non è
sopravvissuto nessuno. Nemmeno il figlio del primo matrimonio di mio
padre, un mio fratello di cui non saprò mai il nome.
A
Varsavia, dove ci siamo trasferiti alla fine degli anni Cinquanta, mia
madre ha lavorato molti anni all’Istituto Storico Ebraico - żIH
nell’acronimo polacco - dove vengono custodite le testimonianze degli
ebrei polacchi. Ogni volta che si imbatteva in una storia di salvataggio
ripeteva: perché è potuto capitare ad altri e non a qualcuno della mia
famiglia? C’era stata anche un’occasione perfetta: un soldato italiano
di stanza a Leopoli voleva portare via con sé mia zia Ida, ma lei non
poteva separarsi dal suo piccolo Adaś, nato da poco, e da sua madre, mia
nonna. Invece un ragazzo ebreo di Leopoli, Marek Herman, era stato adottato
dai militari italiani ed era diventato uno dei più giovani partigiani sulle
Alpi piemontesi.
Anche quando abitavo in Polonia mi erano note diverse storie di Giusti del mio Paese; avevo sentito parlare di Irena Sendler,
anche se non era evidente l’eccezionalità del suo contributo. Negli
anni Settanta mi è capitato di parlare con un signore: la sua famiglia
aveva aiutato degli ebrei durante l’occupazione, mi disse, ma lui non
avrebbe mai accettato la Medaglia dei Giusti, perché emessa da uno stato
oppressore. Devo aggiungere che dopo la guerra e la campagna antisemita
del ’68 scatenata dopo la Guerra dei sei giorni, in Polonia noi ebrei eravamo
rimasti veramente pochi e quasi senza contatti fra di noi.
Nel mio Paese, da quando ho ricordi, era molto difficile parlare dei rapporti
ebraico - polacchi. Ma dalla fine degli anni Settanta, e poi soprattutto
durante l’epoca di Solidarność, qualcosa ha cominciato ad
aprirsi. Negli spazi liberi offerti dalla Chiesa si discuteva delle
tematiche più spinose della nostra storia comune. In saggi di storia e
letteratura si è cominciato a parlare della corresponsabilità polacca nella Shoah e si discuteva della partecipazione degli ebrei alla cultura polacca. Più
tardi, nel 2000, nella Polonia libera, sono stati pubblicati i libri di Jan Tomasz Gross che hanno portato alla conoscenza di tutti la terribile storia di Jedwabne,
la cittadina della Polonia orientale dove i vicini di casa hanno
assassinato l’intera popolazione ebraica e hanno ridisegnato la
coscienza dei polacchi.
Per me, ebreo polacco che vive
all’estero, è amaro e difficile accettare il fatto che nella Polonia
occupata dai nazisti potessero esserci tanti delatori e assassini; tanto
più arduo ammetterlo per un’intera nazione educata nella convinzione
del proprio martirio ed eroismo antinazista e antisovietico. Sono molto
fiero che proprio il mio paese d’origine sia ora in grado di affrontare
un discorso profondo e coraggioso su queste questioni. Voglio citare al
riguardo un brano da un’intervista di Agnieszka Holland:
«Sì,
le cose cambiano ed è un processo interessante. Emergono nuovi fatti, si
stampano nuovi libri… Ma ora avvertiamo anche il bisogno di dire: un
attimo! ma è questa tutta la verità su di noi? La verità è forse che
c’era anche Irena Sendler, che c’erano migliaia di polacchi che
rischiato la vita per salvare il prossimo senza nessun profitto. Sono
questi i nostri eroi. Si va creando un qualche equilibrio.
Paradossalmente è stata proprio la conoscenza della profondità
dell’antisemitismo polacco e dei comportamenti criminali tenuti da molti
durante la Seconda guerra mondiale ad aprire la strada per una nuova
conoscenza dei grandi polacchi, dei Giusti. Questo cancello prima era
chiuso».