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Saggio su Dio, il diavolo e l'amico Vacek

di Adam Michnik

Il 6 marzo si celebra in Europea la prima Giornata europea dei Giusti, istitutita il 10 maggio 2012 dal Parlamento europeo, su proposta di Gariwo, la foresta dei Giusti. Con questa giornata l’Europa ha stabilito una ricorrenza annuale per la memoria del bene, cioè per ricordare quanti si sono impegnati a soccorrere i perseguitati durante i genocidi, a difendere la dignità umana calpestata nei sistemi totalitari, a testimoniare la verità per non dimenticare.
Il 6 marzo, al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano, si svolge la cerimonia di dedica dei nuovi alberi a quattro grandi figure pubbliche: Fridtjof Nansen, Dimitar Peshev, Václav Havel e Samir Kassir.

Per l'occasione, Gariwo, insieme a www.Ilsussidiario.net, ricorda Václav Havel con il lungo articolo, uscito l’8 e 9 ottobre 2011 su Gazeta Wyborcza, che Adam Michnik - saggista, editore e politico polacco - ha dedicato "All’ex presidente della Cecoslovacchia e della Repubblica ceca in occasione del suo 75 compleanno".


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La vera prova per l’uomo non è il ruolo che ha ricoperto o che ha pensato per sé, ma come ha svolto il ruolo che gli è stato affidato dal destino"
Jan Patočka

La traduzione dal polacco è di Annalia Guglielmi


LA GRANDE STORIA DI VACLAV HAVEL
Havel è stato in politica come l’albatros di Baudelaire. Si è sempre sollevato un po’ sopra la terra, perché “un paio di enormi ali” disturbavano il suo calpestio.


I
Bohumil Hrabal ha scritto in una delle Lettere a Kwiecienka: “Cara Kwiecienka, in questo giorno in cui Václav Havel è divenuto il nuovo presidente di questa nostra Repubblica, mentre l’entusiasmo rompeva gli argini, perché un fiume di lacrime aveva gonfiato la corrente della Moldava, ho percorso la Via Regale, completamente tappezzata di manifesti e scritte, tanto che non c’era più neppure un pezzo di muro o di vetrina libero, e l’entusiasmo degli studenti, che traspariva da tutti i loro gesti, esprimeva la volontà che diventasse il loro presidente questo uomo giovane come gli altri, questo uomo che è la misura non solo della nostra vita politica, ma che è la misura di tutto il mondo…”
È evidente che Havel in quel momento, tra il 1989 e il 1990, era l’indiscusso leader della Rivoluzione di Velluto, ed era adorato. Sembra che dietro le quinte, un illustre professore gli abbia detto: “Lei è più importante di Dio”. La sua candidatura alla presidenza era sostenuta dalla piazza, dalle organizzazioni nate dai circoli dell’opposizione democratica, ed anche da tutti gli ambienti ufficiali, dalla Lega delle Donne e addirittura dall’Armata Popolare Cecoslovacca.
Tutti i deputati votarono per lui, anche quelli, ricordava Havel a distanza di anni, che “ancora qualche giorno o qualche settimana prima chiedevano di mettermi in carcere”. Il Parlamento era circondato da un’immensa folla che offriva ai deputati il pane e il sale. Era un modo per invitarli alla concordia e a votare per Havel.
Il suo nome e la sua fotografia erano dappertutto. Lo scrittore e dissidente, il prigioniero politico era diventato il biglietto da visita della nuova Cecoslovacchia e la stella dei mass media di tutto il mondo. Anni dopo, Havel dirà: “In seguito ho pagato cari quei momenti di gloria.
La rabbia per il proprio precedente servilismo non era l’unica ragione della successiva ostilità di molti nei miei confronti. Non meno importante, anzi, forse molto più importante, fu certamente il fatto che spesso io ho incarnato le idee della minoranza, e per questo non corrispondevo all’idea che generalmente si ha dei politici intesi come espressione delle idee o della mentalità della maggioranza della società. Anche se non l’ho mai voluto, molti – non solo negli anni della dissidenza, ma anche in quelli della presidenza – mi hanno considerato un pungolo per le loro coscienze. E questo è imperdonabile”.

II
Nel periodo del comunismo, Havel aveva sentito su di sé i giudizi più disparati, ad esempio era stato accusato di essere il rampollo borghese di una famiglia di multimilionari, che possedevano metà di Praga. Aveva, allora, pazientemente spiegato che suo padre era un imprenditore edile (aveva costruito il quartiere residenziale di Praga Barandov), e che dopo il febbraio 1948 e il colpo di stato comunista la sua famiglia era stata privata del patrimonio e minacciata di essere espulsa da Praga, mentre a lui venne impedito di iscriversi all’università. Aveva quindi cominciato a lavorare come tecnico, mentre contemporaneamente studiava al ginnasio serale.
Ricorda: “Se non ci fosse stato il febbraio 1948, molto probabilmente avrei fatto il ginnasio inglese e avrei cominciato a frequentare la facoltà di filosofia, mi sarei laureato senza essermelo veramente meritato, avrei avuto una Mercedes sportiva e sicuramente sarei diventato qualcosa a metà tra un uomo di cultura (molto più di quanto non lo sia oggi) e un rampollo della gioventù dorata.”
Cominciò a scrivere presto, e presto cominciò a collaborare con i teatri d’avanguardia e studenteschi. Cominciò anche a dire quello che pensava della politica. Negli anni ’60 i teatri iniziarono a mettere in scena le sue prime opere: Garden Party e Memorandum. Nello stesso periodo era anche uno dei redattori della rivista letteraria “Tvar”, che ben presto però fu chiusa dalla nomenclatura del partito.
Durante la Primavera di Praga, fece parte del gruppo dei radicali apartitici, che criticavano i comunisti riformisti per l’eccessiva prudenza e la mancanza di immaginazione sulle intenzioni dell’Unione Sovietica. Nel periodo della “normalizzazione”, dopo l’intervento sovietico, gli fu proibito pubblicare. Secondo le parole di un pubblicista ceco, quello fu anche il periodo del “crollo della società in un baratro morale”, che coinvolse anche molti conoscenti di Havel.

III
In quel triste periodo, l’istinto di uomo di teatro non abbandonò mai Havel. Nel gennaio 1969, trovò nel suo appartamento di Praga un microfono. L’agente di polizia chiamato da Havel si rifiutò di redigere il verbale e chiese che gli venisse consegnato l’apparecchio. Havel, prima descrisse l’accaduto sulla stampa (era ancora possibile), provocando quasi uno scandalo, poi ne fece un aneddoto divertente, che raccontava in modo colorito, facendo divertire gli amici.
Negli anni seguenti – 1970-1974 – visse con la moglie Olga nella sua casa di campagna “Hradecek” sui monti Sudeti. Era continuamente controllato dai servizi di sicurezza, nei giorni feriali e in quelli festivi, d’estate e d’inverno.
Una volta, come racconta Pavel Kosatik, biografo di Olga Havel, ebbe compassione per la sorte degli agenti intirizziti che stazionavano davanti a casa sua e portò loro un grog. In un primo momento, ligi al regolamento, rifiutarono, ma poi bevvero d’un fiato le tazze lasciate per loro.
I gesti da Buon Samaritano di Václav facevano infuriare Olga, invece, Jacek Kuron quando,  in veste di candidato alla presidenza polacca, andò a trovare Havel a “Hradecek” ascoltò questi racconti con gioia e comprendendoli a fondo. Anche lui era fatto così. Un’altra volta, mentre era in macchina, Havel si accorse che la macchina dei servizi segreti che lo stava seguendo era finita in un fosso. Si fermò e tirò fuori gli agenti dal fosso.
Ha ricordato negli anni ’80: “Avevo continuamente una «scorta», spesso venivo interrogato (…), più di una volta sono finito agli arresti domiciliari, ricevevo ingiurie e minacce da parte di «ignoti», mi mettevano sottosopra la casa, mi graffiavano la macchina. Era il periodo caldo dei raid della polizia, delle fughe dalla «scorta», dei nascondigli nei boschi, delle perquisizioni e del frenetico bruciare o mangiarsi i documenti più svariati, era anche, tra l’altro, il periodo dei nostri incontri sul confine con i dissidenti polacchi (io, famoso anti-camminatore, fui costretto per ben cinque volte ad arrampicarmi sul monte Sniezka, ma fui premiato: ebbi la possibilità di conoscere personalmente Adam Michnik, Jacek Kuron e gli altri membri del KOR e diventare loro amico per tutta la vita)”.
Fu allora, nell’estate del 1978, sul monte Sniezka, che cominciò la mia personale avventura con Václav Havel.

IV
Fu un incontro importante: fu la testimonianza simbolica dell’unità degli intenti e dei valori dell’opposizione democratica in Polonia e in Cecoslovacchia. In quell’occasione noi, uomini del KOR e di Charta ’77, preparammo una dichiarazione comune per il decimo anniversario della Primavera di Praga, del Marzo polacco e dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia.
Ascoltai un colloquio di Havel con Kuron. Come erano vicini nel loro anticomunismo e nel loro antifascismo, nella loro fede nell’importanza di costruire le strutture della società civile, nella comprensione dei movimenti dissidenti che avevano creato.
Jacek aveva una mentalità a-filosofica: la sua filosofia era l’azione. Per Jacek la politica era il naturale elemento del suo essere un appassionato educatore. Fin d’allora brillava per il suo talento di oratore. Václav era piuttosto un intellettuale: quello che diceva aveva un grande retroterra filosofico, e faceva riferimento ad Heidegger e Patočka. Mi colpì il suo sfuggire a qualsiasi classificazione: non era un comunista ribelle (a differenza di Jacek), non era un cattolico, non era né un conservatore, né un liberale, né un socialdemocratico. Cordiale, silenzioso, con il distacco dello scrittore e del filosofo dal rumore della realtà. Semplicemente era un democratico o un uomo timido, pacifico ed umile, ma dotato di un grande coraggio, di una grande immaginazione e di un’enorme coerenza.
Verso la fine dell’incontro, Václav estrasse dallo zaino un pane, del formaggio e dell’affettato da offrire a noi Polacchi che non avevamo portato niente da mangiare. Tirò fuori anche una bottiglia, sull’etichetta c’era un cacciatore. Era una bottiglia di vodka: “La vodka del cacciatore”. Disse: “Non abbiamo il socialismo dal volto umano, ma almeno abbiamo la vodka dal volto umano”. E ce la bevemmo.
Quell’incontro fu certamente un gesto eroico (le conseguenze per tutti noi, ma soprattutto per i Cechi, potevano essere molto gravi), ma fu anche divertente. Ci faceva ridere la prevedibile reazione dei servizi di sicurezza di entrambi i nostri paesi se lo fossero venuti a sapere: un incontro illegale di alcuni criminali di entrambi i paesi, che ritenevano necessario che le loro nazioni iniziassero ad essere amiche e a collaborare, c’era qualcosa del teatro dell’assurdo. Pensai: “in fondo il teatro dell’assurdo è sempre stato la specialità di Havel”.
Havel aveva spiegato che il teatro dell’assurdo non era né patetico, né didattico. Era “scandalosamente umoristico”. Non era neppure nichilista. “Non offre né consolazione, né speranza. Ci ricorda semplicemente come viviamo: senza speranza. In questo consiste il suo compito di monito”.
Nel 1974, per alcuni mesi Havel lavorò in una fabbrica di birra. Quell’esperienza gli ispirò la trama dell’opera L’udienza.
Il capo della fabbrica di birra, al quale i superiori avevano ingiunto di spiare Vanek, scrittore e dissidente (alter ego di Havel), gli propone di redigere lui stesso i rapporti alla polizia segreta. Vanek si rifiuta: “Per una questione di principio”.
In risposta ascolta lo sfogo del capo della fabbrica: “Ah sì? E così tu te ne freghi di me? Io posso essere un porco! Io posso rotolarmi in questa merda, io non conto, io sono solo un povero cafone della fabbrica di birra, vero? Ma lei, lei non può entrarci! Io posso sporcarmi di fango, purché lei rimanga pulito! Perché lei ha dei principi! E quello che succede agli altri non le interessa! Purché lei rimanga bello e lindo! I principi per lei sono più importanti delle persone! (…)
Voi, intellettuali! Gran signori! Solo parole garbate, solo che voi potete permettervelo, perché a voi non può succedere niente, tutti si interessano a voi, voi ve la cavate sempre, voi vincete sempre, anche se siete a terra (…) Principi! Come potreste non difenderli, questi vostri principi? In fondo vi convengono alla grande, li vendete benissimo, ci guadagnate un sacco, voi vivete grazie a questi principi, e io? Io posso solo ricevere degli schiaffi (…). Io servo solo per fare il letame su cui crescono i vostri principi, per procurarvi le stanze al calduccio per il vostro eroismo e perché alla fine ci sia qualcuno da sbeffeggiare! Tu un giorno tornerai dalle tue attrici e ti vanterai di come hai fatto rotolare le botti, e sarai un eroe! E io? Da chi potrò tornare? Chi si accorgerà di me?”.
Molti dissidenti in quegli anni hanno ascoltato sfoghi come questo!



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