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I Giusti contro la mafia

un documento del Comitato Foresta dei Giusti

Mafia e Stato
Possiamo definire la mafia come un potere alternativo allo Stato per il controllo (che si configura in senso delinquenziale) sul territorio, al di là dei diversi nomi e delle connotazioni specifiche che tale fenomeno ha storicamente assunto nelle varie regioni italiane in cui è sorto e si è radicato.
Questa realtà criminale ha maggiori possibilità di penetrazione:
- quando si allenta la forza del patto tra istituzioni e cittadini, che non si sentono adeguatamente rappresentanti e difesi dalle istituzioni (soprattutto quelle decentrate sul territorio);
- quando si diffonde a livello culturale la visione dello Stato come altro da sé, come controparte da sfruttare (pretesa di assistenzialismo) e/o da cui difendersi (insofferenza per una presunta invadenza della sfera privata, o per l'imposizione fiscale), e manca un adeguato livello di coesione sociale come base della convivenza civile.

La mafia occupa il vuoto lasciato dallo Stato, e glielo contende (anche con le stragi) quando le istituzioni tentano di colmarlo riaprendo il dialogo con i cittadini per un nuovo patto, offrendo più protezione, più sicurezza, più strutture, più presenza efficiente - in cambio di più legalità, più collaborazione, meno connivenza.

Politica e società civile
Tipico del fenomeno mafioso è l’intreccio con il livello politico, che permette di condizionare l’apparato economico e sociale con il voto di scambio, il clientelismo, la corruzione, i patti inconfessabili di spartizione degli interessi. La permeabilità del “sistema Stato” da parte del “sistema Mafia” nell’ambito dell’organizzazione del territorio - su infrastrutture, grandi opere pubbliche (appalti), organismi amministrativi - e negli apparati repressivi, di investigazione e di controllo, nella magistratura e nei servizi segreti, produce lo sfaldamento del tessuto civile.
Il punto debole è la politica.
I cittadini, isolati e senza coesione sociale, non possono da soli reggerne l’urto.

La politica arretrata e corrotta si intreccia con lo sfaldamento della società civile in un circolo vizioso. Entrambe deboli, non riescono ad essere volano l’una dello sviluppo dell’altra; la loro debolezza le rende reciprocamente ostaggio della capacità di decisione e di azione, di deterrenza della mafia, potentemente organizzata e coesa al suo interno e nel suo intervento sul territorio, dove è in grado di:
- coinvolgere vasti settori sociali offrendo un’alternativa alla inconsistenza dello Stato nel fornire servizi (protezione, lavoro, denaro, soluzione di controversie, visibilità sociale, prestigio, potere “ambientale”, o almeno – in subordine – tranquillità):
- rendere inutile e quindi scarsamente accattivante la nozione di legalità, che risulta un ingombro fastidioso, ipocrita e fuorviante in una realtà che ne smentisce sistematicamente l’efficacia, e il senso anche da parte di chi ne dovrebbe assicurare le condizioni minime di esplicazione (le strutture dello Stato e in particolare la politica). All’esercizio della legalità si sostituisce la ricerca del favore personale, del privilegio, del contatto “giusto” per ottenere ciò che serve, fino a cercare le scorciatoie apparentemente più facili per raggiungerlo. In questo modo si perde irrimediabilmente il senso di appartenenza a una comunità libera e solidale, almeno sulle questioni di maggiore rilevanza per la propria condizione umana;
- irretire gli incerti e i refrattari, conducendoli a sottomettersi al clima generale di indifferenza che si alimenta della mancanza di sbocchi alternativi e della conseguente riduzione degli spazi interpersonali, di scambio relazionale, di esperienze, opinioni, visioni allargate sul mondo e sulle novità che si muovono al di fuori del proprio orizzonte, che diventa sempre più chiuso;
- usare la paura come strumento di controllo trasversale sulla società, imponendo con il ricatto e le minacce la propria ferrea autorità su chi non si è lasciato coinvolgere dal clima generale di acquiescenza o di connivenza.



Un circolo vizioso da scardinare
Quali sono la condizione perché si rompa questo circolo vizioso e se ne inneschi uno virtuoso?
Se si risponde che occorre: 
“una maggiore presenza dello Stato”, 
si rimane all’interno del cerchio. Infatti per avere una maggiore presenza dello Stato, occorre rompere le connivenze e il costume politico prevalente, che si alimenta dell’assenza di società civile dinamica.
Anche se si risponde che occorre: 
“una società civile più dinamica, più consapevole e attenta”, si rimane nel cerchio, perché un tessuto sociale può vivere e svilupparsi solo se trova spazi di espressione “non controllata”, se può “respirare” e allargarsi – condizione assolutamente impossibile senza l’intervento dello Stato che assicuri la formazione e la protezione di questi spazi, quindi che garantisca la legalità.

Teoria dei genocidi e fenomeno mafioso: un approccio innovativo
In realtà occorre ripensare a questi meccanismi con un approccio innovativo, che coniughi l’analisi dell’esperienza storicamente determinata – sia del radicamento della mafia che di lotta contro di essa - con l’applicazione dei principi generali alle basi della teoria dei genocidi e delle possibili forme di opposizione ad essi, in particolare quando l’attore principale del piano genocidario – lo Stato – si configura come Stato totalitario.
Perché applicare la categoria di genocidio applicata nell’alveo del totalitarismo, e come declinarle entrambe in un contesto così diverso da quelli storicamente analizzati, da cui quelle categorie sono derivate?
Crediamo che la risposta a questa domanda contenga anche le premesse per affrontare in modo efficace il dilemma perenne: come uscire dal circolo vizioso tra Stato e società civile senza peccare - o di “irrealismo” e ingenuità, superficialità e velleitarismo, idealismo fuori luogo, - o di “iperrealismo” e quindi di cinismo, quando si dichiara ad esempio che ogni mezzo è ammesso pur di raggiungere l’obiettivo, come nel caso della trattativa aperta dagli apparati statali per far cessare le stragi, la cui notizia sconvolse Borsellino poco prima dell’attentato di via D’Amelio.

I componenti della situazione genocidaria
Iniziamo a vedere entro quali limiti si può applicare la definizione di genocidio, o meglio di situazione genocidaria, alle stragi di mafia, e quella di totalitarismo al suo controllo sul territorio in cui fa esplodere la sua potenzialità.
Il fenomeno storico “genocidio”, secondo la definizione approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, si manifesta come persecuzione di esseri umani, con alcune caratteristiche peculiari e imprescindibili:
1) un attore principale: lo Stato, che esercita il controllo sul territorio
2) uno scopo principale: lo sterminio – quasi sempre non dichiarato o mistificato in un obiettivo “dichiarabile” 
3) un piano articolato: in particolare
a) la costruzione della categoria sociale o politica di “nemico”, identificata in un raggruppamento già esistente (etnico o religioso) oppure appositamente creato (politico, intellettuale, di genere) additato come pericoloso con un procedimento tipicamente ideologico (il bene contro il male, il bersaglio del capro espiatorio)
b) la mobilitazione popolare (il coinvolgimento di ampi strati della popolazione – in modo attivo, connivente - o passivo, indifferente)
c) la mobilitazione burocratica (il coinvolgimento di ampi strati dell’amministrazione locale e della burocrazia centrale)
d) la creazione di modalità repressive specifiche (campi, squadre speciali, lavoro forzato, marce della morte e deportazioni)
4) i mezzi per attuarlo: strumenti propri dell’apparato statale (repressivi e di propaganda).

Le analogie con la condizione mafiosa
Nel fenomeno definito Mafia possiamo riscontrare queste caratteristiche parallele:
1) il controllo sul territorio in sostituzione di quello statale, come potere alternativo che cerca di legittimarsi ideologicamente nella veste di oppositore a una presenza dello Stato considerata oppressiva o viceversa come demiurgo che fa fronte alla sua latitanza; uno Stato inviso in ogni caso perché produce sacche di privilegio, toglie servizi, acuisce le diseguaglianze 
2) lo scopo di liquidare qualsiasi forma di opposizione al proprio dominio assoluto, all’interno come al di fuori delle strutture dell’organizzazione, (nella società), con l’eliminazione degli elementi considerati pericolosi per la propria sopravvivenza criminale, o ostativi dei propri piani di espansione (ad esempio le guerre/faide interne o le stragi di civili)

3) la pianificazione di sabotaggi, attentati, omicidi, in un’escalation di avvertimenti volta a intimorire, a fiaccare la resistenza degli avversari, degli oppositori o dei riottosi, per imporre la propria supremazia (vedi d); 
inoltre la creazione e l’uso sistematico di rapporti di connivenza, il coinvolgimento degli apparati statali burocratici e politici, locali e centrali attraverso la corruzione e il voto di scambio (vedi c);
e il controllo della popolazione, o con l’arruolamento diretto nelle proprie file e l’induzione alla collateralità (mobilitazione attiva), o con il trascinamento verso l’indifferenza (acquiescenza passiva) (vedi b).
L’aspetto ideologico si presenta anche qui in modo incisivo e riguarda:
la cultura dell’antistato, soprattutto nella tradizione separatista, che vede l’apparato statale come “nemico”;
la cultura assistenzialista, che nasce dalla mancanza del senso di cittadinanza, che sente le istituzioni come estranee, imposizioni dall’alto da sfruttare e non come proprie espressioni in un progetto comune di convivenza civile. 
La mafia come Antistato che protegge e garantisce lavoro, sopravvivenza, servizi sul territorio e sicurezza, si candida non solo al controllo repressivo ma anche al consenso. 
Su queste leve ideologiche si gioca la costruzione del nemico da combattere fino all’annientamento (vedi a): i bersagli diventano i “traditori”, o i servitori dello Stato, i ribelli, gli onesti che non accettano di sottomettersi, i difensori della legalità. 
4) l’uso del proprio armamentario tradizionale più utile allo scopo: dagli strumenti repressivi (armi, bombe, sparizioni, torture, rapimenti, morti “bianche”) più violenti, a quelli più subdoli (ricatti, minacce) o pervasivi (favori, privilegi).



Stato e Antistato
Nelle forme e nei risultati del controllo sulla società – che risulta dominio assoluto in entrambi i casi - l'Antistato mafioso ha molto in comune con lo Stato totalitario, in particolare 
- nel diffondere il terrore, 
- nel creare le élites criminali simili nei comportamenti e nell’immagine alla nomenclatura che controlla i gagli vitali della struttura dirigente,
- nel colpire i “dissenzienti” fino a togliere a ciascuno la voglia di pensare autonomamente e di esprimere il proprio pensiero, alimentando il conformismo e l’apatia, 
- nell’isolare le persone spingendole a chiudersi nel proprio ristretto privato, 
- nel rompere i legami di sangue, il vincolo familiare, fino al rinnegamento dei propri cari (per convinzione o per paura, ma sempre con determinazione, come dimostra la usuale presa di distanza dai pentiti da parte dei loro familiari)
- nel perpetuare di generazione in generazione un modo di vedere la realtà rassegnato e sottomesso, con la sensazione che mai nulla potrà cambiare.
- nel negare il piano genocidario, cioè l’esistenza di un disegno eliminazionista, e attribuendone le cause ad altri fattori. Se lo Stato giustifica la propria condotta accusando le vittime di essere gli artefici di scontri interetnici, guerre civile, complotti internazionali da cui ha dovuto difendersi, le stragi di mafia vengono spiegate come “effetti collaterali” di scontri tra clan criminali o risultato di lotte intestine e concorrenziali tra diversi e confliggenti spezzoni della società. Il fenomeno del negazionismo assume in questo caso forme parossistiche, fino a escludere l’esistenza stessa della mafia come organizzazione criminale, o almeno il suo radicamento in quel territorio: cioè a negare l’evidenza, insieme al mascheramento del suo legame con la politica.

Per rompere l’accerchiamento: la “resistenza” dei Giusti
Stabilite le analogie e i paralleli, cosa può rompere il circolo vizioso?
Come per fermare un genocidio o incrinare la forza di un regime totalitario occorre un intervento forte, sia dal punto di vista statale (dall’interno degli apparati o da altri Stati, per via diplomatica o con la forza) che della società civile, così per disinnescare la potenza della mafia occorre la sinergia tra i due segmenti che girano a vuoto l’uno sull’altro, lo Stato e i cittadini. 
E come?
Con la creazione di un polo di attrazione alternativo, che solo l’iniziativa dei singoli può esercitare. È la differenza contagiosa dell’esempio edificante, del coraggio civile che scuote le coscienze di chi sta a guardare, sia negli apparati dello Stato che nella società civile. SONO I GIUSTI!
L’abbiamo visto con l’ondata di indignazione seguita alle stragi del ’92, che ha costretto lo Stato e la società siciliana a collaborare nel ripristino di un clima di legalità da troppo tempo assente nei suoi territori. E ora lo stiamo vedendo nella ribellione degli imprenditori e dei commercianti, sostenuti dalle associazioni di categoria e dagli apparati investigativi e di sicurezza.
Negli anni ’80 e ‘90 l’esempio dei giudici Falcone e Borsellino era stato preceduto e seguito da quello di altri magistrati, investigatori, uomini politici – non a caso definiti “servitori dello Stato” – così come sacerdoti, insegnanti, intellettuali, gente comune avevano sentito il bisogno di assumersi una “responsabilità personale antimafiosa” nella società.

I “Giardini dei Giusti contro la mafia”
Si può trovare la forza di ribellarsi se si è molto coraggiosi, ma anche se si rompe l’isolamento e si diventa forza collettiva e non più solo singolo argine.
Coltivare la coscienza civica, la cultura della legalità, il senso di appartenenza a un progetto condiviso di società non è un percorso astratto, che si impara sui libri. È un esercizio concreto che si basa sulla dimostrazione della fattibilità, partendo dalle figure esemplari che hanno saputo scegliere “tra un sì e un no”, che hanno saputo respingere le lusinghe della comodità, del quieto vivere, dell’indifferenza, per affermare come bene prioritario la propria dignità.
La frase di Shalamov in “Protesi” nei Racconti di Kolyma: “No, l’anima non ve la do”, rievocata recentemente anche da Roberto Saviano, unisce idealmente le vittime del totalitarismo che resistevano nel gualg alla disumanizzazione imposta dai carnefici, con i cittadini minacciati dal potere mafioso che si rifiutano di piegare la testa e ripetono anche loro: “no , l’anima non ve la do!”.
Ecco il ruolo dei GIUSTI: l’esempio che sfida il potere costituito in nome della dignità umana.
Il potere mafioso è un apparato concorrente con lo Stato per imporre il proprio controllo sul territorio e – come lo Stato – può pianificare il genocidio come mezzo di controllo sociale e di perpetuazione del proprio potere.
Nel caso della mafia non si tratta di costruire un nemico nuovo da eliminare o di rendere nemico un gruppo umano incolpevole per poterlo annientare. Si tratta invece di uccidere lo Stato, di interpretarlo come nemico, facendo così venir meno le condizioni di legalità che sole possono salvaguardare e mantenere viva l’intera società civile come spazio vitale autonomo. Significa annientare l’intero popolo, togliendogli, con la dignità, la propria identità e il senso del futuro. Proprio come avviene per i genocidi!
Occorre partire dal ricordo dei GIUSTI, raccontare le loro storie, sviluppare la memoria educativa che li riguardi, onorarli con tutte le forme usuali e inusuali che si rendano praticabili.
Per questo diventa importante proporre l’idea innovativa dei “Giardini dei Giusti contro la mafia”: giardini per i giovani, ma anche per scuotere la coscienza degli adulti.

a cura del Comitato Foresta dei Giusti
documento redatto da Ulianova Radice, 10 marzo 2011

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