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"Le mie prigioni di velluto"

una giornata con Roberto Saviano

John Llyod, un giornalista del Financial Time, incontra lo scrittore che descrive come è cambiata la sua vita da quando ha denunciato la mafia con il libro Gomorra ed è costretto a vivere sotto scorta.

"Fin da piccolo, racconta, sapeva di dover scrivere, di dover raccontare la criminalità che lo circondava. Saviano è cresciuto a Napoli, in una famiglia borghese. Ma tutto intorno a lui c'era la camorra, una fratellanza criminale estesissima, fondata sui clan e vecchia di almeno due secoli. La camorra controlla l'industria casearia e l'industria ittica, il commercio di caffé e oltre 2.500 fornai in città. Controlla anche lo smaltimento dei rifiuti, e le battaglie per il controllo di questa redditizia attività hanno provocato sporadicamente, negli ultimi tre anni, l'accumulo di sacchi di spazzatura nelle strade del capoluogo campano.

Quando era adolescente, Saviano vide suo padre pestato per aver soccorso una vittima della camorra: la 'regola' era che quelli bisognava lasciarli morire. Suo padre però mostrava rispetto per gli uomini di potere, e consigliava a suo figlio di essere forte, come i boss della camorra. Forse ha avuto più influenza su di lui un prete anticamorra, don Peppino, a cui Saviano dedica un capitolo in Gomorra e che fu ucciso da coloro che aveva denunciato. Saviano ricorda che il prete gli diceva che chi si opponeva ai clan doveva essere 'lì per accusare e testimoniare la parola con la sua unica difesa: dire le cose pubblicamente'

Saviano ha seguito quel consiglio ed è stato questo a dargli la notorietà straordinaria di cui gode. Lui c'è, con forza, in tutto quello che scrive; e c'è ora, con ancora più forza, nel suo programma televisivo. 'Credo che scrivere come scrivo io rimane più impresso perché è una narrazione, ed è questo che coinvolge la gente. Non sono solo i fatti a trasmettere la storia. Dev'essere anche letteratura, non solo fatti'".

29 novembre 2010

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