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Senegalese, musulmano, avvocato e cooperatore

Intervista ad Abdoulaye Mbodj

Abdoulaye Mbodj, 30 anni, musulmano, è il primo avvocato africano del Foro di Milano. Nato a Dakar, in Senegal, nel 1991 si è trasferito in Italia vicino a Lodi raggiungendo il padre che viveva in Italia dal 1988. Dopo il liceo scientifico si è laureato in Giurisprudenza all’Università Cattolica con 110 e lode e nel 2012 è entrato nell’Ordine degli Avvocati della città di Milano, dove esercita in uno studio con altri cinque penalisti specializzati nel diritto penale “bianco” (reati societari, finanziari, commerciali), mentre a Lodi ha uno studio di consulenza per enti e società. Oltre all’attività professionale, si dedica a progetti di sviluppo nel paese di origine, donando materiale all’Ospedale, al Comune e alla scuola elementare di Dakar attraverso la A.A.B.A. Onlus” (“Associazione Amici di Babacar Mbaye e Awa Fall”. Il suo motto è: “non regalarmi il pesce ma insegnami a pescarlo che mangio tutta la vita”, ovvero fare cooperazione controllando l’utilizzo degli aiuti per evitare sprechi e cercando di formare il personale locale per renderlo autonomo.

Nell’intervista a Gariwo Mbodj racconta la sua storia ed evidenzia gli ostacoli che oggi rendono più difficile l’integrazione delle nuove generazioni di immigrati.


La sua carriera è un esempio di integrazione riuscita. È tutto merito suo?

Quando si arriva a un traguardo non è mai per caso, ma anche grazie al contributo di altri. In questo caso mio padre, per la scelta coraggiosa di lasciare la sua terra e venire in Italia, dove inizialmente campava vendendo accendini per strada. E poi la maestra che mi dava ripetizione di italiano tutti i pomeriggi, i preti e gli animatori dell’oratorio che mi hanno aiutato molto. E poi c’è stato il mio impegno personale naturalmente.

Pensa che il suo sia un caso isolato di successo?

Per me la cosa basilare è stata la scelta dei miei genitori: “Abdou vogliamo investire sulla tua istruzione perché è il modo migliore per darti un futuro”, mi dicevano. Una scelta non molto scontata negli anni ’90, perché altri genitori allora si accontentavano di un’istruzione media per i figli per farli andare a lavorare presto. Inoltre io non ho mai subito episodi di razzismo. Ora è molto più difficile, perché il mercato del lavoro è saturo e c’è ostilità nei confronti degli immigrati a causa della crisi. E poi le terze generazioni di immigrati si sono un po’ sedute. Per esempio mio fratello è nato in Italia nel 1995, ha avuto tutti i vantaggi dati dal benessere, ma ha deciso di concludere gli studi come perito agrario. Non ha respirato quella voglia di rivalsa che io e mia sorella, la seconda generazione, abbiamo sentito vedendo la fatica dei nostri genitori per sopravvivere.

Quali consigli può dare ad altri cittadini stranieri per realizzarsi dal punto di vista professionale?

La molla che mi ha fatto arrivare a questo traguardo è l’ambizione, essere determinato a seguire un sogno. Vedo tanto colleghi che temono di non essere presi in considerazione perché sono neri, ma io dico loro di non accontentarsi dei lavori che di solito si ritiene adatti agli immigrati nell’ambito dei servizi sociali, ma aspirare a ruoli dirigenziali come direttore di aeroporto o responsabile finanziario di una multinazionale, perché l’integrazione vera è questo.

Come combattere le frustrazioni di chi non riesce a integrarsi e rischia di subire un processo di radicalizzazione?

Questi ragazzi si radicalizzano perché non hanno una professione, sono insoddisfatti degli studi e spesso hanno rotto il legame con i genitori e con le loro origini. Ma in Italia abbiamo un’intelligence che funziona, a differenza di altri paesi, e i fenomeni di radicalismo vengono subito intercettati anche grazie alla collaborazione delle comunità.

I centri culturali islamici sono in grado di aggregare i giovani disorientati, che non studiano e non lavorano?

Sfatiamo un luogo comune: non sono centri culturali, ma spesso un’appendice di un’attività commerciale. In alcuni casi c’è il negozio e poi il garage o il box dove si va a pregare. Io ho appoggiato la linea del sindaco di Milano Giuliano Pisapia, perché il modo migliore per riunire le persone alla luce del sole è dare loro un luogo pubblico. E bisogna fare un censimento o un albo degli imam. Poi c’è l’aspetto antropologico. Noi senegalesi abbiamo il nostro centro culturale a Zingonia molto "neutro", perché abbiamo una concezione culturale molto più tribale, da clan, mentre nei paesi del Maghreb c’è una concezione religiosa molto più autoritaria. E poi c’è il problema della frammentazione delle comunità: l’UCOI, il CAIM, il gruppo dei siriani, ed è difficile per gli enti locali individuare l’interlocutore valido. Per i musulmani non c’è un riferimento unico, come il Papa per i cattolici.

Queste divisioni possono essere superate?

I musulmani come prima cosa devono creare una sorta di coordinamento delle associazioni, concordando tre o quattro punti prioritari. A Milano è stato fatto un bando per realizzare i nuovi luoghi di culto ed è stato aggiudicato per tre centri di cui uno per il CAIM. Il CAIM non si è accontentato, è andato al TAR per impugnare il bando. Il TAR annullerà la gara e non se ne farà niente. E nel CAIM, che rappresenta la comunità islamica di Milano Monza e Brianza, non c’è neanche un rappresentante dei musulmani dell’Africa Nera. Di fatto riunisce solo quelli del Maghreb e del Medio Oriente. Io sono in contatto con i ragazzi di Yalla Italia - Il Blog delle Seconde Generazioni”, che hanno una posizione critica rispetto a come il CAIM ha gestito il bando. Anche il Professor Paolo Branca, autorevole islamista e responsabile del Dialogo con l’islam della Diocesi di Milano, aveva una posizione critica su questo tema. Ci vuole un minimo di unione, la divisione tra i musulmani ormai è genetica.

Come valuta le politiche di gestione dell’immigrazione dell’Italia a livello nazionale e locale? Che cosa dovrebbero fare le autorità per favorire l’integrazione?

In Italia abbiamo avuto una buona legge, la “Turco-Napolitano” del 1998, la migliore in Europa, che si poggiava su due pilastri: la gestione ordinata dei flussi, anche con la repressione dell’immigrazione clandestina che non rientrava nei parametri stabiliti a livello governativo, e le politiche per l’integrazione con un fondo per realizzarla e gli enti locali in grado di operare. Nel 2002 abbiamo fatto un passo indietro epocale con la “Bossi-Fini”, puramente repressiva anche perché emanata sull’onda della spinta emozionale l’anno dopo l’11 settembre, che non ha funzionato perché ha moltiplicato il numero dei clandestini, e anche le misure emanate successivamente con i pacchetti sicurezza non sono servite. Bisogna rivedere queste norme e portare a termine la legge sulla cittadinanza. Una politica di corto respiro come vediamo oggi in Europa non funziona.

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