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La sovranità di Jan Palach

a 45 anni dalla morte

La sovranità del ricordo, questa auto-definizione dell'Europa come lieu de la mémoire, come luogo della memoria, ha però un suo lato oscuro. Le targhe affisse su tante case europee non parlano solo dell'eminenza artistica, letteraria, filosofica o politica. Commemorano anche secoli di massacri e di sofferenze, di odio e di sacrifici umani.


Georg Steiner, Una certa idea di Europa

Al giorno d’oggi è d’obbligo, per chiunque visiti Praga, sostare in Piazza San Venceslao dove Jan Palach si diede fuoco il 16 gennaio 1969 in segno di protesta contro l’invasione di Praga. Lo scrivono le guide turistiche, lo insegnano anche i genitori e i docenti, che spesso appartengono alla stessa generazione dello studente cecoslovacco. 

Ma queste pietre, direi osannate, come del resto tutti i monumenti di questa suggestiva città europea, che cosa significavano per chi vi viveva una quotidianità non da turista? Che cosa commemoriamo con questi pellegrinaggi, soprattutto chi di noi è cresciuto in un mondo dove l’ideologia è solo un retaggio malvisto del passato? Perché un ragazzo poco più di vent’anni decideva di darsi fuoco diventando il simbolo della disperazione di un popolo? 

L’Università Carolina di Praga ha predisposto un sito ricco di informazioni, che aiutano ad addentrarsi nelle vie della città boema con una prospettiva storica rigorosa. Si tratta di www.janpalach.cz/.eu, con articoli e contenuti multimediali in ceco, russo, italiano, tedesco, francese e molte altre lingue. 

Qui si apprende che Jan Palach è un giovane brillante negli studi, che ha perso il padre da piccolo, fa carriera nelle associazioni studentesche d’oltrecortina ma scende anche in piazza con i suoi concittadini, trascorre dei periodi di lavoro in URSS, ma anche in Francia; va a visitare la tomba di Jan Masaryk, il primo Presidente della Cecoslovacchia. Potremmo definirlo patriottico? Un suo compagno di scuola lo ricorda così: “Era una persona tranquilla, razionale, sembrava già un filosofo e, come scoprimmo più tardi, originariamente voleva studiare filosofia. Era molto serio. Studiava per capire le cose a fondo e non per eccellere negli esami. Aiutava volentieri gli altri nello studio o nel risolvere problemi relativi alla scuola. Partecipava a dibattiti perlopiù sullo studio o su problemi politici.” 

Si sa che lo studente di Lettere e Filosofia stava pensando da tempo a un gesto che potesse incitare i cecoslovacchi alla resistenza contro l’occupante. Probabilmente fu ispirato dalla stessa propaganda comunista, che pubblicizzava spesso i tragici gesti di auto-immolazione dei monaci buddhisti vietnamiti contro l’occupazione americana. Di certo, questo giovane che purtroppo sopravvive ormai solo nella memoria come “torcia umana” e non per quello che avrebbe potuto dare alla Storia del pensiero, doveva rendersi conto che programmare un suicidio di protesta significava disporre in modo molto “forte” del proprio libero arbitrio, per risvegliare una massa paurosa e conformista. 

Quindi, andare oggi dove c’è la targa a suo nome, o nel cimitero dove è sepolto, significa andare a ricordare un giovane militante per la libertà del popolo ceco, e non un giovane ingenuo ingannato da qualche politico come i media russi cercarono di far credere. 


Un artista ceco, David Czerny, ha avuto modo di collocare in Praga alcuni paradossali monumenti ironici che fanno intuire la disperazione di cui i cechi si sono liberati anche grazie al risveglio delle coscienze seguito al gesto di Palach: a parte un dito medio rivolto al minaccioso Castello di Praga, già simbolo del potere assoluto dai tempi di Franz Kafka, c’è anche un carrarmato rosa che dovrebbe servire a smitizzare, o almeno esorcizzare, il terrore che incutevano i tank sovietici. 

Terrore, cupezza, “normalizzazione” ovvero repressione di ogni germe di dissenso, che fosse un’attività politica o un concerto o una poesia. Questa era la vita nella Praga occupata.
Anche per questo la morte di Palach ebbe un’eco politica e sociale così forte che un altro dissidente, un altro Giusto, Václav Havel, come mostra un video dell’archivio raccolto dallo stesso sito dell’Università Carolina, dovette lanciare un appello alle autorità perché scendessero a compromessi, scongiurando il ripetersi di simili tragedie, percepite dall’opinione pubblica come veri e propri “sacrifici umani”. 

Un giovane nato molto dopo quei momenti potrebbe ritrovare qualcosa di Jan Palach in Mohammed Bouazizi, l’ambulante tunisino che si diede fuoco nel 2011, innescando la Primavera araba. Il sito dell’Università praghese ricorda anche questo caso. Un caso, va ricordato, che resta sempre controverso proprio perché la maggior parte delle religioni considera un peccato il suicidio, questo modo estremo di disporre della propria vita e della propria libertà fino alla fine. Tuttavia gli studiosi cechi ricordano, giustamente perché è passato troppo poco tempo, che su questo caso “alcuni dettagli non sono del tutto chiari e alcune testimonianze sono molto divergenti”.


Dato che la nostra nazione si trova in bilico tra disperazione e rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e risvegliare così la coscienza nazionale”, scriveva la “Torcia Umana n. 1”, come si firmò Jan Palach, prima del gesto estremo. Questo atto del darsi fuoco, che speriamo resti limitato ai soli Stati totalitari, pur avendo sfidato anche il potere religioso è intimamente intriso di religiosità. Così, tornando al nostro viaggio tra i monumenti commemorativi presenti in Repubblica Ceca, Jan Palach è ricordato con una targa con su una croce, simbolo di riconciliazione e di una cultura che i regimi atei volevano cancellare. 

Forse, 45 anni dopo, potremmo interrogarci sulla natura della “fede”, in senso umanistico e non necessariamente di appartenenza a una chiesa, che tutte le figure di Giusti in qualche modo sembrano testimoniare con le loro scelte talvolta irreversibili

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