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Maledetto Dostoevskij

di Atiq Rahimi Einaudi, 2012

“ Ti sembra che Dostoevskij sia riuscito a cambiare qualcosa nella vita del suo Paese? È forse riuscito a influenzare un certo Stalin?”
“No…ma ha dato a me la consapevolezza, la capacità di giudicare me stesso e di giudicare Stalin. È già qualcosa di grandioso…”
Questo dialogo si svolge fra Rassul, ex studente, precipitato in un vorticoso dilemma morale dopo che, nell’Afghanistan infiammato dalla guerra civile all’indomani del ritiro sovietico, ha ucciso una vecchia usuraia per proteggere la fidanzata, e Parwaiz, capo della sicurezza in un paese ormai senza legge.

Il romanzo di Atiq Rahimi “Maledetto Dostoevskij” racconta l’Afghanistan nel momento in cui i talebani prendono il potere e la sharia, diventata legge di stato, stravolge in realtà qualsiasi morale, riducendo ogni essere umano a un destino che lo trascende e che lo segna irriducibilmente. Non esiste più individuo o responsabilità individuale. “Quando mai in questo Paese si giudica qualcuno in quanto individuo? Tu non sei più quello che sei. Sei ciò che sono i tuoi genitori, la tua tribù”, spiega il cancelliere a Rassul che pretende di essere processato per il suo delitto, mentre il santo tribunale lo condanna in quanto figlio di un comunista, cioè di un infedele. Delitto molto più grave di un omicidio, soprattutto se la vittima è donna: “…il prezzo del sangue di una donna è la metà di quello di un uomo…L’omicida può essere giustiziato se i parenti della vittima pagano l’altra metà del prezzo alla famiglia dell’imputato…Oppure è assolto se dà una figlia alla famiglia della vittima”.

Spogliare l’uomo della sua identità, anzi delle sue molteplici identità, per ridurle a una sola, che si tratti dell’appartenenza di classe, o di razza, o di credo, o di stirpe, o di genere, questa è la sostanza del totalitarismo. Imprigionare l’uomo in un destino che lo trascende, cui non può sfuggire, aldilà della volontà individuale.

Ho letto il libro di Atiq Rahimi contemporaneamente a un altro, in apparenza molto lontano, “La famiglia Karnowski” di Israel Singer, e ho avuto la sensazione di trovarmi dentro la medesima storia.

Nel libro di Singer si narra l’epopea di tanti ebrei illusi di aver raggiunto una piena integrazione, un sogno di appartenenza che nella solida e ordinata Germania si credeva massimamente realizzato. Ebbene, i talebani come i nazisti, il richiamo al sangue, alla tribù, a una mistica inattaccabile, la stessa ansia distruttiva, la stessa pretesa di ridurre la vita dentro lo spazio angusto di una prigione ideologica, la volontà iconoclasta di distruggere tutto ciò che a quel progetto si rivela irriducibile, di cancellarne le tracce.

Rassul, che si ostina a raccontare la sua storia a un giudice interessato esclusivamente alla sua fazione e alla sua religione, rimanda immediatamente al bottegaio Ludwig Kadisch che invano sfoggia la sua Croce di ferro guadagnata al fronte, fino a sfilarsi l’occhio di vetro ed esibirlo ai nazisti che gli ribattono l’unica cosa che loro interessi, la sola che vedono, il suo essere ebreo. E allora da quell’orbita vuota, Kadish piange, così come Rassul perde la voce e si rassegna alla morte, perché nel suo paese non c’è più spazio per la vita.
L’essenza dell’ideologia, l’essenza della tirannia, è l’odio per la vita.

La letteratura è forse impotente di fronte al disastro, ma può risvegliare nell’uomo, anche solo in uno, la scintilla morale.

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