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Gaza, le conseguenze della guerra

la realtà dopo il conflitto

Cosa resta della guerra dopo la firma del cessate il fuoco? I giornali smettono di riportare fatti e numeri e il conflitto si trasforma in una data. Gli attacchi e i bombardamenti tra Israele e Palestina durati tutta l’estate hanno prodotto migliaia di morti e feriti; hanno distrutto case, scuole e ospedali, e contribuito ad accentuare il clima di terrore con il quale la popolazione deve convivere tutti i giorni. A poco più di un mese dalla fine del conflitto, Gaza si confronta e si scontra con le conseguenze della guerra, come lo stress post-traumatico e i tentativi di fuga verso l’Occidente.

Sono circa tremila i bambini, dagli otto ai tredici anni, in cura presso la NACM (National Association for Crisis Management) per disturbi come insonnia, panico, incubi e incontinenza. Molti di loro hanno vissuto più di uno scontro, visto morire parenti e amici, ascoltato i boati e le sirene fino a non sentirli più, e imparato a distinguere le armi dei militari israeliani da quelle di Hamas. In un’intervista al Corriere della Sera del 23 settembre 2014, lo psicologo infantile Saed Sersawi racconta la difficoltà di affrontare questi drammi, poiché spesso chi cura e chi è curato hanno subito lo stesso choc. Gli analisti operano attraverso terapie di gruppo, psicodrammi e relazioni di vicinanza, e si avvalgono del supporto degli insegnanti che, nonostante la scarsità dei mezzi, continuano a svolgere il loro lavoro. Sono infatti più di venti gli istituti distrutti e circa settanta quelli inagibili; in molte scuole dormono ancora gli sfollati, il materiale di cancelleria scarseggia e deve essere usato con parsimonia.

C’è invece chi da Gaza ha deciso di scappare, sperando in una vita migliore all’estero. Sono giovani, fuggono dalla morte e affidano la propria vita ai contrabbandieri di esseri umani, avidi di denaro e speculatori della sofferenza e della disperazione. È un fenomeno nuovo in Palestina, nato durante l’ultimo conflitto, ma che viene tenuto nascosto perché rappresenta uno schiaffo morale e politico per i dirigenti di Hamas. In precedenza non si era mai verificata una migrazione così consistente. Le famiglie fanno partire i giovani, spesso utilizzando il sussidio dell’Autorità Nazionale Palestinese concesso per la ricostruzione. Il viaggio è lungo, costoso, estenuante. La prima tappa dei profughi palestinesi è l’Egitto - ci arrivano attraverso i tunnel utilizzati dai contrabbandieri o passando per il valico di Rafah. I barconi partono dal porto di Damietta, a quattro ore di macchina da Rafah e 200 km a nord del Cairo. L’obiettivo sono le coste italiane, che spesso restano solo un miraggio: molti trovano la morte nel naufragio durante la traversata.

Nonostante tutto, a Gaza c’è ancora la speranza e la forza di lanciare un messaggio, la voglia di comunicare al mondo, anche solo volto a se stessi, che bisogna resistere, opporsi e lottare pacificamente, affinché la propria identità singola e vitale, non sia soffocata sotto le macerie. È l’arte il nuovo strumento di resistenza per combattere contro l’ingiustizia. Prodotta e condivisa grazie alle tecnologie e ai social media, riesce a mostrare l’anima e il dolore del popolo palestinese. Alcuni artisti, con l’aiuto di Photoshop, hanno trasformato il fumo grigio generato dall’esplosione delle bombe in immagini di speranza e le hanno pubblicate su Facebook ed altri social network. Una delle opere più condivise - scrive Pam Bailey nel suo articolo apparso su AlJazeera del 24 settembre - è quella di una donna che indossa una gonna fatta di case distrutte, a simboleggiare il ruolo femminile nel preservare la cultura palestinese. Alcuni di questi artisti hanno fondato una galleria d’arte chiamata “Windows From Gaza”, che con i proventi finanzia workshop per i bambini aspiranti artisti. La ricostruzione personale e collettiva può iniziare anche da una fotografia.

1 ottobre 2014

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