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Il difficile cammino della prevenzione dei genocidi

Intervista a Niccolò Rinaldi

Niccolò Rinaldi è stato responsabile dell'informazione dell'Onu in Afghanistan, eurodeputato a Strasburgo ed è oggi segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo, per il quale ha lavorato in numerose regioni in crisi. Gli abbiamo rivolto alcune domande a partire dall’intervento del professor Yehuda Bauer alla conferenza della Open University of Israel per il ventennale del genocidio ruandese, in cui lo studioso ha insistito sul tema della prevenzione dei genocidi e sottolineato l’importanza dello studio e del confronto tra tutte le atrocità di massa, inclusa la Shoah.

Yehuda Bauer sostiene che la memoria della Shoah deve diventare un punto di riferimento storico e morale per la prevenzione di tutti i genocidi. Come interpreta questa affermazione?

La Shoah è certamente il genocidio più studiato da una letteratura scientifica che non cessa di ampliare il suo campo - basti pensare ad alcuni filoni che hanno approfondito aspetti diversi come il ruolo della propaganda, la zona grigia, le conseguenze nella generazione non delle vittime ma in quella dei loro figli, il collaborazionismo involontario nel mondo ebraico. E siamo lontani dall'aver esaurito un campo di studio, quello della Shoah, che è per definizione inesauribile. Ma soprattutto quanto accaduto con la Shoah, compresa la lunga strada che l’ha preparata senza lasciare spazio all’improvvisazione o alla storia con la sua imprevedibilità, ne fanno il riferimento imprescindibile per capire ogni altro meccanismo genocidario e ogni successivo tentativo di riscatto. In qualsiasi contesto genocidario, non è possibile un'analisi se non a partire dalla Shoah. 

 “L’Olocausto non è unico; è senza precedenti, e ciò significa che è un precedente che può essere ripetuto (anche se non nella stessa maniera)…”. Tra l’altro è molto interessante la considerazione presente nel testo sull’uso problematico del termine genocidio. Da questa citazione si evince chiaramente la presa di posizione di Bauer sulla non unicità della Shoah e che il termine senza precedenti è riferito alle modalità che ne fanno un caso “da manuale” e non alla negazione di precedenti genocidi (ad esempio il genocidio armeno che è cronologicamente anteriore e che nel testo viene citato proprio in relazione ai Giusti). Che cosa ne pensa?

Concordo. C’è una certa confusione sulle qualifiche di “unico” o “irripetibile”. Come ho già scritto in altre circostanze, la Shoah non è stata né il primo né l’unico genocidio del XX secolo – e figuriamoci se poi guardiamo a quanto accaduto prima. Ma la sua dimensione e la sua modalità non hanno precedenti e sono unici. Se si pensa al Ruanda, ci troviamo al cospetto di un genocidio che non è stato il solo del XX secolo, ma che per dimensione e modalità ha dimostrato come l'Olocausto di un altro popolo è stato possibile. Anche il Ruanda del 1994 è una storia irripetibile. Eppure il genocidio si è ripetuto. L'assoluto della Shoah pare aver trovato nel genocidio ruandese e in altri, come quello armeno che lo ha preceduto, una sorta di sventurati figli maggiori.

Bauer sottolinea come la definizione di genocidio codificata dalla Convenzione ONU del’48 sia riduttiva (come tutte le definizioni) poiché non adattabile a crimini come l’Holodomor in Ucraina o il genocidio in Ruanda. Lo studioso propone di adottare l’espressione “atrocità di massa” (MAS), che comprende con il genocidio anche i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e la pulizia etnica. Cosa pensa di questa formula?

Niente in contrario, ma non vedo cosa cambierebbe. I dibattiti sulla terminologia non finiscono mai e ho l’impressione che ogni vecchia o nuova definizione sia sempre una coperta troppo corta e possa essere occasione di nuovi disagi, perché, appunto, “tutte le definizioni sono riduttive”. Ho anche una certa diffidenza verso un uso eccessivo degli acronimi: con fatica si è fatto largo nell’opinione pubblica il concetto di “genocidio”, e pochi, al di là dei ristretti circoli di persone consapevoli, capirebbero cosa ci sia dietro un’espressione come “MAS”. E questo vale anche per molti politici e giornalisti, che confondono Darfur e fast food. Forse sarebbe meglio aggiornare le implicazioni giuridiche del termine “genocidio”. Ma senza banalizzarlo: la pulizia etnica, praticata nei Balcani e in Siria, in Palestina e in Tibet, ha molte gradualità che suscitano altrettante discussioni; è oggi una sorta di genocidio “soft”, meno eclatante, che comunque non è un genocidio.

Parlando della comunità internazionale come work in progress ed esprimendo anche la propria diffidenza verso le decisioni prese in modo sospetto all’unanimità dall’ONU, Bauer richiama un concetto fondamentale: la responsabilità degli Stati per il benessere e la protezione delle persone, dovunque vivano. Cosa può fare l’Italia e cosa fa l’Europa?

L’ONU funziona come funziona, e Bauer fa bene a diffidare della moralità di un’organizzazione che decide certe cose all’unanimità o con il potere di veto di chi ha vinto la guerra settanta anni fa. E la stessa politica estera europea funziona con simili limiti - e si vede. Ma dietro veti e vincoli di unanimità ci sono ragioni storiche antiche e ragioni politiche di oggi che non è ancora facile cambiare, ahimè. Ma alcune strade ci sono: le legislazioni universali ne sono un esempio pilota, la giurisdizione della Corte Penale internazionale e della stessa Corte Internazionale di Giustizia. Ma alla fine la questione resta eminentemente politica e culturale e il recente caso del Ruanda fa scuola: nella prevenzione del genocidio africano l’Europa non ha fatto niente. Al di là degli obblighi giuridici e degli imperativi morali, al di là dell’informazione che pure arrivava prima e durante i massacri, l’Europa è restata a guardare, e una certa parte d’Europa ha anzi contribuito attivamente ad aiutare in vario modo, politico e perfino logistico, i genocidari. E nessuno ha mai pagato per questo scandalo – evidentemente i tutsi erano “neri” e “lontani”, e il loro sterminio non costituiva una minaccia per noi, e tanto basta. Non solo: a genocidio terminato, vi sono stati Paesi, come la Francia o la Santa Sede, che non mi pare abbiano mai voluto fare i conti con le proprie responsabilità e nessuno – dalle rispettive opinioni pubbliche, al consesso europeo, alla stessa comunità scientifica – mi pare che abbia mai voluto rompere davvero questo silenzio. Se si abbona quello che è accaduto solo venti anni fa in Ruanda e poi negli anni successivi rispetto alla protezione non delle vittime ma di alcuni ricercati, è difficile responsabilizzare gli Stati europei in modo credibile affinché garantiscano un ruolo effettivo nella prevenzione di tutti i genocidi e crimini contro l’umanità, e non solo di quelli che stanno più a cuore di altri.

Nella visione di Bauer lo studio e l’analisi dei crimini del passato devono servire a comprendere i meccanismi e i segnali che preannunciano il rischio di un genocidio, così come gli scienziati osservano la natura per prevenire le calamità. Questo implica una rivalutazione dell’idea di memoria che deve farsi anche un po’ scienza… Cosa ne pensa?

Non è un’affermazione nuova, ma è giustissima e resta di grande attualità. Ogni genocidio consumato offre materia di ispirazione ai genocidari del giorno dopo, con meccanismi di emulazione a volte stupefacenti e insospettabili. Dovrebbe essere così anche per chi si oppone al genocidio. Il Ruanda, sotto questo punto di vista è un caso esemplare per le molteplici somiglianze con quanto accaduto durante la Shoah. In proposito ho pubblicato quello che probabilmente è il primo confronto tra lo sterminio degli ebrei in Europa e quello dei tutsi e degli hutu moderati in Ruanda – “Shoah e Ruanda, due lezioni parallele”, edizioni Giuntina 2014 – in cui ho esaminato in una settantina di brevi capitoletti tematici (da “burocrazia” a “velocità”, da “”oblio” a “incredulità”) quanto accaduto nell’uno e nell’altro genocidio, e nonostante quarant’anni e due continenti di distanza, la “calamità” si è abbattuta con somiglianze impressionanti. Alla luce della Shoah, molto di quanto accaduto in Ruanda era già tutto scritto, tutto spiegato, e grazie all’insufficiente analisi del passato ci si è fatti beffe d’ogni forma di prevenzione.

Bauer ritiene fondamentale nella prevenzione dei genocidi la stretta collaborazione tra esperti accademici e attori politici: i primi hanno le conoscenze per analizzare le situazioni, mentre i secondi sono in una posizione migliore per valutare i possibili modi di intervenire contro le MAS. Cosa ne pensa? C’è consapevolezza di questo in Italia e in Europa?

Prospettiva condivisibilissima ma al di là delle buone intenzioni, non è così semplice. Le due comunità – scientifica e politica – condividono molto meno di quello che si pensa. Hanno due diverse “costituency”, ciascuno parla con obiettivi propri che non necessariamente coincidono. Nel mio lavoro di parlamentare europeo ho riscontrato spesso questa lontananza: vi sono vanità, l’accademico "ricerca" e "afferma" ma può essere restio a uscire dai propri circuiti e a confrontarsi con settori della società dove il dibattito è molto più duro e il linguaggio deve essere adattato a un pubblico non specialista - scuole, blog, movimenti politici, associazionismo e quant’altro; il politico è assillato dalla ricerca del consenso, e può prediligere altre priorità per soddisfare bisogni più immediati – nessun politico è mai stato eletto o rieletto in base al suo lavoro sulla prevenzione dei genocidi. Il massimo a cui si arriva è l'invito rivolto al politico a partecipare a un convegno accademico, o una efficace battuta del politico in forma di dichiarazione.
Non solo i due circuiti finora sono rimasti in gran parte separati, ma hanno entrambi bisogno di un terzo partner nel comune lavoro, che potrebbe diventare "socio di maggioranza": i media, senza i quali è difficile incidere nella società. Avendo chiare queste difficoltà, la moltiplicazione delle occasioni di collaborazione dovrebbe essere un impegno sia per i politici che per gli accademici: i primi cerchino di appropriarsi di una maggiore conoscenza scientifica, i secondi siano disposti a “predicare il verbo” uscendo dai seminari e andando per strada. Per far questo c’è bisogno anche di facilitatori tra i due ambiti, e anche questi non sono molti, ma certo un’associazione come Gariwo ha svolto questo ruolo, di approfondimento in sede scientifica e di presidio nella società anche attraverso la sollecitazione di un impegno politico, in modo unico.

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