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La Polonia di Solidarnosc

un’esperienza reale di solidarietà

Rientrai in Polonia nel settembre del 1980 carica di aspettative e speranze, e anche di molta curiosità per quello che avrei trovato. Volevo, ovviamente, ritrovare i miei amici e sapere come stavano, ma soprattutto desideravo condividere questa nuova avventura con loro, conoscerne lo stato d’animo e il giudizio, condividerne le giornate e vivere insieme a tutti loro i cambiamenti in atto.

Trovai una Polonia letteralmente ribaltata rispetto a quella che avevo lasciato a giugno. In meno di tre mesi il Paese era radicalmente cambiato. La prima cosa che mi colpì già all’aeroporto a Varsavia era che la gente sorrideva mentre svolgeva il proprio lavoro, e che in molti avevano appuntata la spillina di Solidarność sulla giacca. Era come se la cappa del grigiore tipica di quei Paesi fosse stata spazzata via, soprattutto dai volti delle persone.

Il giornalista Konstanty Gebert, uno dei fondatori di Solidarność a Varsavia, ha definito quei mesi “la festa delle teste alzate”, aggiungendo: “Non era il festival di un gruppo di pazzi: sapevamo che non avevamo la forza di rovesciare un governo sostenuto dall’esercito sovietico, non si trattava di trascinare la Polonia in un altro massacro come era accaduto tante volte nel corso della nostra storia, ma di alzare la testa, di sentirci uomini liberi, di riconquistare la dignità, e questa era una cosa nostra, non era qualcosa che ci potevano rubare.” Queste parole descrivono esattamente il clima che abbiamo respirato in quei mesi.

All’Università di Lublino tutti portavano il distintivo di Solidarność e tra gli studenti stava nascendo l’NZS (Niezależne Zrzeszenie Studentów – Associazione Indipendente degli Studenti), l’organizzazione studentesca degli studenti universitari. L’NZS aveva un’importanza particolare soprattutto all’interno delle università statali, perché andava a sostituire le organizzazioni studentesche del partito, ma anche all’Università Cattolica gli studenti sentivano il bisogno di essere protagonisti del loro studio e di poter incidere sulla vita dell’università.

Ovviamente mi iscrissi subito a Solidarność ed entrai in stretto contatto con le strutture regionali del sindacato.

Mi resi subito conto che Solidarność era molto di più di un sindacato così come lo conoscevo dall’esperienza italiana. Seppur nata nel mondo operaio e per difendere i diritti dei lavoratori, Solidarność fin dai primi giorni era divenuta non solo un’esperienza reale di solidarietà - che investiva tutti gli ambiti della vita dell’uomo: la cultura, la famiglia, l’arte -, ma soprattutto un’esperienza di libertà e dignità. Era il modello di “polis parallela” di cui proprio in quegli anni parlavano gli intellettuali dissidenti di Praga. Nessuno pensava o sperava di poter cambiare il sistema, ma si viveva come se il sistema non ci fosse.

Ha detto ancora Konstanty Gebert: “Nel sistema post-totalitario c’era un certo spazio di libertà. In questo spazio di libertà noi in Polonia (…) abbiamo creato una società civile, una società parallela. Ovviamente non avevamo la forza di rovesciare il governo, ma questo non significava che dovevamo sopportare passivamente quello che il sistema ci imponeva e la sua immagine della vita sociale. C’è un grande attivista e teorico del movimento, scomparso qualche anno fa, Jacek Kuron, che negli anni ’70 ha lanciato uno slogan che diceva: “Non bruciate i comitati, createne di vostri”. Si riferiva al fatto che durante la rivolta operaia sul litorale baltico nel 1970, gli operai, il giorno dopo il massacro compiuto dall’esercito, erano scesi in piazza e avevano bruciato la sede del Comitato del partito. Mentre nell’80, invece di bruciare i “loro” comitati abbiamo creato i “nostri” comitati”.

La canonica di padre Brzozowski e di padre Oszajca era un vero laboratorio di esperienze di ogni genere: studenti e docenti universitari, artisti, giornalisti, operai, contadini ne riempivano continuamente i locali per incontrarsi, scambiarsi opinioni e giudizi, prendere decisioni, o semplicemente per cantare e mangiare insieme. Dai domenicani, invece, spesso era possibile incontrare i giovani di Danzica, discepoli di padre Wiśniewski, che venivano a chiedere consiglio o a incontrare i loro amici di Lublino per decidere come muoversi in università.

Tutto il Paese era attraversato da un’ondata impressionante di energia e voglia di costruire. La gente si sentiva finalmente protagonista del proprio destino e si sono creati in quei mesi dei legami strettissimi fra le diverse realtà sociali e le diverse città.

Ha detto Tadeusz Mazowiecki, parlando di Solidarność in un intervento al Meeting di Rimini: “È importante chiedersi se Solidarność era semplicemente una lotta contro qualcosa o qualcuno o se piuttosto fosse una lotta per qualcosa. (…) Noi avevamo sì un’avversione, ma non eravamo alimentati dall'avversione e dall’odio: nella nostra protesta si manifestava l’antitotalitarismo ma allo stesso tempo Solidarność veicolava un insieme di valori che, con l’insorgere di nuove iniziative che erano intese ad animare la società, miravano ad essere non soltanto contro qualche cosa ma ad essere anche in favore della costruzione di qualcosa”.

La stampa clandestina, che già si era sviluppata molto negli anni precedenti, in quei mesi ebbe un impulso molto forte, in molti casi anche grazie all’aiuto di diverse realtà occidentali - soprattutto sindacati e movimenti ecclesiali - che fornirono ciclostili, carta e inchiostro, nascosti fra i pacchi di cibo e abiti che cominciavano ad arrivare con una certa regolarità in Polonia, perché la situazione economica era sempre più difficile, e si cominciava a rasentare l’emergenza umanitaria. Questi trasporti di materiale per la stampa erano favoriti anche da un certo allentamento dei controlli di frontiera polacchi. Purtroppo si era invece indurita molto la guardia di frontiera cecoslovacca, che era diventata ancora più rabbiosa e meticolosa di prima, per questo ad un certo punto si scelse la strada molto più lunga, ma più “facile” della Germania Est, dove, avendo un visto di transito che scadeva dopo poche ore e che quindi consentiva di attraversare il Paese percorrendo soltanto un’unica autostrada senza nessuna possibilità di fermarsi o di entrarenelle città, i controlli erano un po’ meno rigidi.

Inutile dire che fu un anno ricchissimo di esperienze e incontri, infatti, moltissime personalità durante quell’anno accademico vennero a Lublino per fare conferenze o tenere lezioni. Ma vi furono due momenti particolarmente significativi.

Il 16 dicembre 1980 andai a Danzica per l’inaugurazione del monumento delle “Tre Croci”, in memoria dei caduti delle proteste del 1970, eretto a tempo di record nel piazzale antistante i cantieri. Fu un momento molto intenso e commovente per tutto quello che significava, soprattutto per la memoria di quelle vittime che finalmente, dopo 10 anni, potevano essere ricordate pubblicamente.
Mentre risuonavano le note dell’opera “Lacrimosa”, scritta per l’occasione da Krzysztof Penderecki, Daniel Olbrychsky, uno dei più importanti attori del teatro polacco, scandiva i nomi dei caduti, e una folla immensa rispondeva “Vive in mezzo a noi!”, e alla base del monumento si potevano leggere le parole di Czesław Miłosz, che aveva appena ricevuto il premio Nobel per la letteratura:

“Tu che hai offeso l’uomo semplice
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male (...)
non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
saranno messi a verbale atti e parole”.

Nel giugno del 1981 l’Università conferì il Dottorato Honoris Causa a Miłosz. Fu una vera festa: erano presenti tutte le elites intellettuali del paese e c’era Lech Wałęsa, che di lì a qualche anno avrebbe ricevuto il Nobel per la Pace.

Il cardinal Wyszyński, che era deceduto pochi giorni prima, il 30 maggio, era riuscito, pur già molto malato, a scrivere una lettera per l’occasione in cui, tra l’altro, affermava, parlando di Miłosz : “(...) Oggi egli può dire di essersi salvato. È vero, ha subito sconfitte, ha ceduto alle illusioni, ne è stato vittima, come un vero esule, figlio di Eva, ma si è sempre e subito allontanato da ogni illusione, certo di avere un altro compito nella vita. In questo pellegrinaggio solitario attraverso la storia, egli porta se stesso, forse spesso con una ferita, ma sempre, come immagine dell’uomo del XX secolo, che ha vissuto molte esperienze e non vuole diventare schiavo né della tecnica di pensiero delle scuole filosofiche, né dei programmi sociali, (...), e neppure della tracotanza di poteri sempre più crudeli. Forse Egli è una sorta di “grido nella notte”, una sorta di segnale d’allarme dell’ultima ora, per lui, per la sua sofferenza, il compito più importante è salvare la libertà dell’Uomo”.

Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

5 febbraio 2015

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