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Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell'epoca della globalizzazione

di AA. VV., a cura di Marcello Flores (direttore scientifico) Utet, Torino, 2007

L’opera edita da UTET si articola in 2 volumi di cd. Dizionario (dedicati alle varie voci sui Diritti Umani, con un approccio di tipo enciclopedico), 2 volumi di cd. Atlante (con specifico riferimento alle singole realtà territoriali), 1 volume di Documenti relativi ai Diritti Umani (interessantissima antologia dei documenti storici elaborati dall’umanità nel corso della sua storia), ed un Album fotografico.

A questi testi cartacei si aggiungono supporti multimediali quali 2 dvd Viaggio nei diritti Umani (una sorta di viaggio ideale in tutto il mondo attraverso le voci narranti di Michele Placido e Laura Morante, i quali leggono i testi di storici, giornalisti, economisti, premi Nobel, giuristi, sociologi, operatori umanitari, e testimonianze dirette delle vittime delle violazioni dei diritti umani) ed un cd-rom che permette la consultazione ipertestuale di tutti i testi del Dizionario e dell’Altante.

Sotto la Direzione scientifica di Marcello Flores, hanno collaborato oltre 200 tra autori e cultori della materia, fornendo un apporto di elevatissimo livello intellettuale.
Nel complesso, l’opera della Utet pare un fondamentale strumento di consultazione e di studio a chi intenda approfondire le tematiche dei diritti umani, sia sotto un profilo giuridico che storico, sociologico e filosofico.
Il sito internet di Utet fornisce un’ampia presentazione dell’intera opera, consentendo la consultazione anche di singole voci del volume Enciclopedico, e vi si rinvia per la lettura (vedi box).

Segnatamente meritano in questa sede un approfondimento le voci Genocidio di Marcello Flores, e Giustizia penale internazionale a cura di Antonio Cassese.
Articolata in sottovoci (introduzione, analisi sociologiche, analisi storica, la modernità, da crimine a condanna morale), la sezione sul Genocidio appare particolarmente originale nella parte relativa alla recente evoluzione storica del concetto che, nato in ambito strettamente giuridico, ha successivamente costituito oggetto di dibattiti e riflessioni anche in ambito sociologico e filosofico.

Afferma, infatti, Flores, che “l'approccio sociologico, in effetti, oltre a rimuovere completamente l'origine giuridica del termine, tendeva a destoricizzare gli eventi presi in considerazione per individuare un modello metastorico entro cui poterli inserire tutti quanti. L'idea del genocidio come «una forma di omicidio di massa unilaterale in cui uno stato o un'altra autorità intende distruggere un gruppo, così come esso e la sua appartenenza sono definiti dai colpevoli» (Chalk e Jonassohn, 1990), si prestava ad accomunare lo sterminio e riduzione in schiavitù degli abitanti di Melo e i massacri di Gengis Khan nel corso della conquista mongola, la crociata contro gli albigesi e la caccia alle streghe nella Scozia del XVI e XVII secolo, lo sterminio completo dei tasmaniani e quello all'80% degli herero, per non parlare dei numerosissimi casi inseriti accanto alla Shoah e ai crimini staliniani per riassumere il genocidio nel Novecento.
Il tentativo compiuto recentemente da Michael Mann (2005), di attribuire definizioni particolari (classicidio, politicidio, etnocidio) per eventi spesso sussunti sotto lo stesso termine di genocidio non gli ha impedito, al tempo stesso, di determinare i tratti comuni di quest'ultimo, individuati sommando tutti quelli presenti negli eventi storici ritenuti o ipotizzabili genocidio. Il risultato è quello di una definizione particolarmente articolata ma anche eccessivamente lunga e onnicomprensiva, che fa perdere al modello teorico la funzione riassuntiva e di generalizzazione, per attribuirle quella di sommatoria analitica dei caratteri degli eventi storicamente determinati”.

Altrettanto interessante è l’analisi del contributo storiografico dato al concetto di Genocidio dagli storici. Flores ritiene che “la comparazione storica dei genocidi e dei crimini di massa del XX secolo è un risultato recente, che ha dato, probabilmente, i suoi risultati migliori quando si è soffermata sui problemi d'interpretazione, fossero essi relativi a singole questioni o al contesto più generale, all'analisi delle cause o delle modalità e degli strumenti dei massacri, al ruolo degli attori coinvolti (vittime, responsabili, osservatori) o alle dinamiche della politica internazionale”.

L’autore, dopo aver osservato come il fenomeno del genocidio sia un unicum del XX secolo e della cosiddetta modernità, tenta di legare tra loro strettamente i genocidi alla modernità, sostenendo che tale tema “è stato approfondito in modo ancora insuperato da Zygmunt Bauman (1992) e che tale operazione sia possibile confrontand brevemente quelli che sono indiscutibilmente, e cioè per tutti o quasi i commentatori appartenenti alle più diverse discipline, dei genocidi: quello armeno, quello ebraico, quello cambogiano e quello ruandese.”
Conclude, sul punto osservando che “in realtà la modernità non costituisce l'orizzonte unico e totale entro cui si realizza, per esempio, l'esperienza genocidiaria del nazionalsocialismo (Traverso, 2002), anche se ne è un aspetto essenziale e tutt'altro che accessorio. Tutti i genocidi, del resto, condividono questo intreccio tra pulsioni (e modalità) distruttive premoderne e caratteristiche proprie della modernità”.

In chiusura, Flores, si sofferma sul carattere di categoria logica del concetto di genocidio che da concetto giuridico è giunto ad assumere i connotati di condanna morale vera e propria, di baluardo dell’uomo moderno di fronte alla barbarie:
“Il genocidio, insomma, col tempo perde progressivamente il carattere di crimine “legale” e acquista soprattutto quello di condanna “morale”. L'uso del termine è, sempre più, un uso analogico, che parte dalla definizione giuridica o dal riferimento alla Shoah. Basta pensare al silenzio o al rifiuto esplicito, per lunghi anni, di usare la parola genocidio a proposito della Cambogia, oppure, al contrario, alla sua ripresa che accompagnò le tragedie della ex Iugoslavia e del Ruanda negli anni Novanta, per rendersi conto di come il dibattito sul genocidio abbia ormai inestricabilmente intrecciato gli aspetti giuridici e politici, di ricerca scientifica e di senso comune e uso pubblico e riduttivo del termine”.
La bibliografia finale, per quanto essenziale, fornisce al lettore un ampio riferimento per ulteriori approfondimenti.

Anche la sezione dedicata alla Giustizia Penale Internazionale, a cura di Antonio Cassese, si rivela particolarmente interessante. L’introduzione ha il merito di porre sin da principio sul piatto le principali questioni legate alla territorialità del diritto penale – secondo il quale è competente a giudicare il tribunale del luogo ove è stato commesso il reato – di fronte alla natura transnazionale di alcuni delitti o anche di fronte alla natura “politica” dei crimini contro l’umanità (che sono spesso perpretrati da regimi o da apparati di potere evidentemente ancorati al territorio ove avvengono).
Preso atto delle concrete difficoltà in capo ai Tribunali territoriali di perseguire crimini quali il “genocidio”, lo “sterminio di massa”, i vari “crimini di guerra” ed in generale tutti i cosiddetti “crimini contro l’umanità”, Cassese affronta dapprima i casi in cui i giudici nazionali hanno applicato la cd. Giurisdizione Universale sia in ambito penale che civile, per poi soffermarsi sulla recente storia dei Tribunali Penali Internazionali.
Quanto all’esercizio dell’azione penale da parte dei giudici nazionali in relazione a reati quali il terrorismo, la tortura o il genocidio, Cassese evidenzia le difficoltà legate alla necessità che il reo sia presente sul territorio dello Stato al momento dell’inizio dell’azione penale (fase d’indagine) ovvero al momento del rinvio a giudizio, con evidenti problemi legati al regime dell’estradizione.
E conclude affermando che “l’avvenire della giurisdizione penale universale rimane alquanto incerto. Gli stati, infatti, esitano non poco a pronunciarsi su gravi crimini commessi all'estero e senza alcun legame con il territorio dello stato del foro, temendo che l'esercizio di tale giurisdizione possa in qualche modo essere percepita come una intrusione negli affari interni di altri stati”.
Quanto all’esercizio dell’azione civile per risarcimento dei danni da reato commessi all’estero, Cassese, espone il caso degli Stati Uniti: “i tribunali civili statunitensi erano competenti a pronunciarsi su gravi violazioni dei diritti umani commesse all'estero (Gross violations of human rights), purché quei diritti fossero contemplati da norme internazionali generali. È da notare che, in base al diritto statunitense, in questa categoria di processi non è necessaria la presenza del convenuto in giudizio, bastando che la citazione gli sia stata consegnata personalmente. Da quel caso a oggi i tribunali civili statunitensi si sono pronunciati su numerosissime violazioni gravi dei diritti umani fondamentali, e tra tali violazioni anche su crimini di tortura, crimini di guerra o crimini contro l'umanità”.
Anche in questo caso, l’autore sottolinea i limiti dell’approccio nazionale al perseguimento di crimini internazionali o sovranazionali, osservando che in concreto le sentenze emesse dalle corti statunitensi che condannano al risarcimento dei danni da delitto non vengono poi eseguite, per oggettivi difficoltà pratiche delle procedure esecutive.
Infine, la parte certamente più interessante della sezione è costituita dai capitoli dedicati alla Giurisdizione dei Tribunali Penali Internazionali.
Dopo aver ricordato che i primi tribunali penali internazionali furono quelli di Tokyo e di Norimberga, creati ad hoc contro i crimini commessi durante la seconda guerra mondiale, e che ad essi seguirono nel 1993 e nel 1994 le Corti per la Ex Jugoslavia ed il Ruanda, Cassese sottolinea l’importanza dell’evoluzione dei recenti tribunali internazionali, evidenziando che “i tribunali creati negli anni Novanta hanno una composizione internazionale (i giudici vengono eletti dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite su proposta del Consiglio di sicurezza, mentre il procuratore capo viene nominato dal Consiglio di sicurezza)”.
Quindi, affronta la Corte Penale Internazionale creata nel 1998, con il concorso di 120 Stati ed avente carattere permanente e ne descrive a grandi linee la giurisdizione: “Essa, può giudicare crimini commessi da un cittadino di uno degli stati contraenti o perpetrati sul territorio di uno di tali stati. Inoltre, quando la Corte è attivata non dal procuratore capo motu proprio o su istanza di uno stato contraente, ma dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la sua competenza si estende a qualunque grave crimine internazionale, anche se commesso da una persona che non ha la cittadinanza di uno stato contraente o sul territorio di uno stato che non è parte allo Statuto della Corte”.
Infine, rapidamente si passano in rassegna i recentissimi casi di cd. “tribunali penali misti”, composti cioè sia da giudici dello stato sul cui territorio sono stati commessi crimini, sia da giudici internazionali nominati dalle Nazioni Unite (Sierra Leone 2000, Timor Est 2000, Cambogia 2006). 
L’autore dedica ampio spazio all’analisi critica delle sopra cennate esperienze di giustizia internazionale, sottolineandone sia i meriti (imparzialità e distacco dei giudicanti, rispetto delle più avanzate regole procedurali e di diritto sostanziale in materia di diritti civili, cassa di risonanza per l’opinione pubblica internazionale), sia i limiti: “I due più gravi difetti sono la lentezza dei processi, e la necessità per i tribunali internazionali di avvalersi della cooperazione degli stati, mancando la quale i tribunali si rivelano impotenti”.
“Altro limite notevole dei tribunali penali internazionali esistenti è che essi non sono competenti a pronunciarsi su due dei più gravi crimini internazionali attuali: il terrorismo e l'aggressione”, entrambi reati che le grandi potenze hanno preferito mantenere sotto la propria sfera giurisdizionale per evidenti valutazioni di ordine politico, trattandosi di ipotesi delittuose che toccano spesso direttamente la politica estera. 
A conclusione del proprio lavoro, Cassese, tira le fila ritenendo che “probabilmente il futuro della giustizia penale internazionale non risiede in una sola delle tre strade indicate qui sopra. Sembra più realistico pensare che l'infittirsi della criminalità internazionale organizzata e il moltiplicarsi di gravi crimini quali, per esempio, il genocidio e il terrorismo, possano trovare una risposta adeguata nel ricorso – non simultaneo, naturalmente, ma selettivo – a tutte e tre le strade finora seguite”.
A tale proposito, l’autore suggerisce una soluzione elastica, idonea ad adattarsi alle mutevoli forme che la criminalità internazionale può assumere. 
Entrambe le voci analizzate dell’opera UTET hanno il pregio di fornire al lettore un valido strumento scientifico, mediante l’utilizzo di un linguaggio chiaro. L’esposizione lineare, ancorché succinta, appare sufficientemente approfondita ed autorevole da indicare all’utente ulteriori spunti di riflessione e ricerca.

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