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Moshe Bejski (1920 - 2007)

l'uomo che creò il Giardino dei Giusti

L’infanzia in Polonia, la Shoah e l’incontro con Schindler
Moshe Bejski nasce nel villaggio di Dzialoszyce, in Polonia, nei pressi di Cracovia, il 29 dicembre del 1920. Cresciuto nell’ambiente ebraico, sente fortemente il peso dell’antisemitismo polacco e, ancora adolescente, aderisce a un movimento sionista che organizza il trasferimento in Palestina dei giovani ebrei polacchi per la costruzione di una nuova patria nella terra promessa. Poco prima dell’invasione tedesca del 1939 deve rinunciare al suo sogno sionista a causa di una grave malattia al cuore, che gli impedisce di partire insieme ai suoi compagni.

Nel 1942 tutti gli ebrei vengono internati. La famiglia Bejski è smembrata: Moshe, insieme ai fratelli Uri e Dov, finisce nel campo di lavoro di Plaszow, reso tristemente famoso nel film di Spielberg Schindler’s List per il suo comandante sadico, Amon Goeth, che si divertiva a usare i prigionieri come bersagli di un allucinante tiro a segno dalla finestra della sua camera da letto. I genitori e la sorella, invece, vengono fucilati sul posto. Moshe riesce ad eludere la sorveglianza delle guardie durante un turno di lavoro fuori dal campo e cerca invano rifugio presso i vicini di casa polacchi, i cui figli sono stati, fino al giorno prima, suoi compagni di scuola e di giochi. Solo un fattorino, suo collega di lavoro in una ditta di Cracovia, gli offre ospitalità, pur in condizioni molto disagiate e rischiose, ma anche in questo caso la curiosità malevola dei vicini vanifica l’unico gesto di generosità di un polacco verso un ebreo che Moshe abbia conosciuto.

Costretto a ritornare “spontaneamente” nel campo di Plaszow, dove ritrova Uri e Dov, ottiene fortunosamente di essere inserito con loro nella famosa lista della fabbrica di Oskar Schindler. In questo modo i tre fratelli Bejski riescono a salvarsi e sono liberati dall’Armata Rossa nel maggio del 1945. Scoprono la tragica sorte dei genitori e della sorella e decidono di emigrare in Israele: la Polonia, ormai, non è più la terra a cui ritornare, ma solo il paese dell’antisemitismo e della persecuzione del loro popolo.

La nuova vita in Palestina, il processo Eichmann e la Commissione dei Giusti
Moshe inizia una nuova vita nel luogo dei sogni che non aveva potuto raggiungere da ragazzo. Il sogno sionista si infrange subito contro la dura realtà: suo fratello Uri viene ucciso da un cecchino palestinese il giorno del riconoscimento ONU dello Stato ebraico. Il sogno di diventare ingegnere si scontra invece con le necessità della vita quotidiana. Moshe è costretto a scegliere una facoltà che gli permetta di lavorare per mantenersi agli studi e con molti sacrifici si laurea in giurisprudenza, con una tesi sui diritti dell'uomo nella Bibbia. Diventato uno dei più stimati avvocati di Tel Aviv, sente tuttavia il dovere di sostenere lo Stato d’Israele appena nato e sceglie la carriera di giudice, fino ad occupare, alla fine degli anni Cinquanta, l’incarico più prestigioso, di membro della Corte Costituzionale.

Moshe Bejski ha lasciato alle spalle il passato in Polonia, di cui non vuole più parlare. Nessuno conosce la sua storia drammatica e tutti lo considerano un sionista giunto in Palestina prima della persecuzione nazista, se non addirittura nato in quella terra. Solo nel 1961, durante il processo Eichmann, i suoi amici ne scoprono la vera origine. Chiamato dal pubblico ministero Hausner a testimoniare sul campo di Plaszow, Bejski fornisce un racconto sconvolgente di quell’esperienza e trasmette al Tribunale la sensazione drammatica dell’impossibilità di comunicare il senso di disperazione e di impotenza dei prigionieri in quelle circostanze. Per la prima volta in Israele viene alla luce il profondo disagio dei profughi dell’Europa sopravvissuti alla Shoah, incapaci di inserirsi e di farsi accettare da una popolazione che li considera con sufficienza e li accusa, tra le righe, di vigliaccheria o di non essersi saputi ribellare ai nazisti. Si apre un grande dibattito nel paese, fomentato anche dall’intervento polemico della filosofa tedesca di origine ebraica, Hannah Arendt, fuggita in America negli anni ’30, e finalmente si affrontano i problemi legati alla storia degli ebrei nell’Europa del Novecento.

Acquisisce la giusta notorietà il Mausoleo di Yad Vashem, eretto a Gerusalemme a perenne ricordo delle vittime della Shoah e viene finalmente messo in pratica il punto 9 della sua legge istitutiva del 1953, con il quale lo Stato d’Israele di impegnava a rendere omaggio ai non ebrei che avevano salvato delle vite ebraiche, concedendo loro la sua onorificenza più alta, il titolo di Giusto tra le Nazioni.Viene istituita la Commissione dei Giusti, con il compito di condurre le inchieste per accertare gli atti di salvataggio e stabilire a chi assegnare il riconoscimento. Ne diventa presidente il più famoso giudice d’Israele, Moshe Landau, che aveva diretto il processo Eichmann, redigendone la sentenza di condanna a morte. Landau tuttavia lascia presto l’incarico e propone la candidatura di Bejski, che lo sostituirà nel 1970, mantenendo la presidenza fino al 1995, quando darà le dimissioni. Nel frattempo, quasi diciottomila Giusti sono stati insigniti e hanno piantato un albero nel viale a loro dedicato a Yad Vashem per ricordarne il gesto. Moshe Bejski, dalle sue dimissioni al giorno della sua morte, il 6 marzo 2007, ha vissuto a Tel Aviv, occupandosi dell’educazione dei ragazzi, a cui trasmettere la conoscenza della storia della Shoah e le riflessioni che la sua esperienza gli ha suggerito.

L’eredità
Il ruolo di Moshe Bejski nell’attività della Commissione dei Giusti è stato decisivo. Mentre Moshe Landau pensava a un organismo che si occupasse di pochi casi emblematici, Bejski ha ribaltato questa posizione, con la volontà di attribuire il titolo a tutti coloro che avevano espresso l’intenzione di andare in soccorso a un ebreo perseguitato, anche se non erano riusciti a salvarlo o lo avevano fatto senza correre il rischio della vita. Per il nuovo presidente della commissione, non era necessario essersi comportati da eroi per ottenere il riconoscimento. Il gran numero di casi segnalati a Yad Vashem dimostrava che vi era stato un reale coinvolgimento di molte persone, di gente comune, nel tentativo di strappare gli ebrei allo sterminio. Far conoscere le loro storie significava sfatare il mito che l’opposizione al nazismo fosse un’impresa quasi impossibile, che non ci fosse la possibilità concreta di aiutare i perseguitati senza correre rischi estremi. Molte volte sarebbe bastato un piccolo intervento per impedire una grande tragedia. Ecco perché è importante valorizzare e rendere pubblico ogni gesto di opposizione che si è manifestato a favore degli ebrei nell’Europa occupata dai nazisti. Per ottenere questo risultato Bejski non si è risparmiato: vi ha dedicato i suoi anni migliori, rinunciando a gran parte della sua vita privata, trattenendosi fino a tardi per dirigere le riunioni della commissione dopo le giornate intense di lavoro alla Corte Costituzionale. La sua attività, del tutto volontaria, ha saputo coinvolgere e trasmettere entusiasmo agli altri membri, allargandone le competenze, creando le sottocommissioni per poter affrontare più casi, sostenendo il dibattito interno senza mai rinunciare a indagare fino all’ultimo elemento utile per una valutazione corretta e leale. I dilemmi che si è trovato di fronte sono stati enormi: come giudicare chi ha salvato un ebreo, ma dopo la guerra ha ucciso un altro uomo, o la donna che ha nascosto dei perseguitati mentre si prostituiva con gli ufficiali nazisti, o chi ha salvato decine di ebrei in Polonia senza tuttavia venir meno alle sue convinzioni antisemite, o ancora, chi ha aiutato ricevendo in cambio del denaro?
Non solo. L’idea della responsabilità personale, del debito morale dei sopravvissuti, di gratitudine verso chi li aveva salvati, ha spinto Bejski a occuparsi in prima persona del suo salvatore, Oskar Schindler. Dopo averlo ritrovato all’inizio degli anni ’60 e averlo strappato dalla bancarotta e alla prigione in Germania, lo ha invitato in Israele e si è impegnato strenuamente per il riconoscimento della sua azione, costretto a scontrarsi con la ferma opposizione di Landau, fino all’apoteosi del film di Spielberg, che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Oltre a Schindler, Bejski si è impegnato ad aiutare altri Giusti che vivevano in condizioni precarie nei paesi dell’Europa Orientale o che avevano bisogno di assistenza medica e ha condotto una dura battaglia per ottenere l’impegno dello Stato israeliano nei loro confronti. 

Moshe Bejski ci lascia una preziosa eredità. La sua ricerca dei Giusti ci ha insegnato che si può intervenire contro il Male, con un atto di Bene, anche senza diventare martiri; che si può aiutare un perseguitato con un semplice gesto, purché si abbia la spinta morale a farlo; che non esistono barriere, né di etnia, né di religione, né di credo ideologico o politico, quando si mette l’uomo al centro del proprio mondo di valori. Infine ci ha dimostrato che il modo migliore per salvaguardare l’esempio dei Giusti è di sentirci noi tutti, in prima persona, responsabili verso di loro, come loro si sono sentiti responsabili verso degli altri esseri umani. Raccogliere l’eredità di Moshe Bejski significa ripercorrere la sua strada, per valorizzare i Giusti di ogni parte del mondo, dovunque e ogni volta che sono stati perpetrati dei genocidi o altri crimini contro l’umanità.

Dal 24 gennaio 2003 a Moshe Bejski sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano. La sua storia è raccontata nello spettacolo teatrale "Il Memorioso", tratto dai libri di Gabriele Nissim, con Massimiliano Speziani e la regia di Paola Bigatto.


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