Gariwo
https://it.gariwo.net/magazine/editoriali/il-valore-della-memoria-dei-giusti-3675.html
Gariwo Magazine

Il valore della Memoria dei Giusti

editoriale di Gabriele Nissim

Il cippo all'ingresso del Giardino di Milano (Foto di Gariwo)

Il cippo all'ingresso del Giardino di Milano (Foto di Gariwo)

L’iniziativa del 5 maggio nel Giardino dei Giusti di Milano è il risultato di una battaglia culturale durata molti anni. Nel corso della cerimonia saranno piantati sei alberi in onore di Hrant Dink il giornalista armeno assassinato a Istanbul, di Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata per il suo impegno contro i crimini in Cecenia, di Dusko Kondor che pagò con la vita la sua battaglia per la giustizia in Bosnia dopo la pulizia etnica, di Abdul Wahab, l’arabo che durante l’occupazione nazista della Tunisia salvò numerose famiglie ebraiche, del console italiano Pier Antonio Costa che salvò in Ruanda quasi duemila tutsi e dei 440 italiani che salvarono gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Vale la pena riprendere alcune riflessioni che ci hanno guidato in questo lavoro e che speriamo possano essere condivise.


Prima di tutto la memoria dei Giusti, proposta per la prima volta da Yad Vashem, ha fatto un salto qualitativo perché non è più un tema che riguarda soltanto gli ebrei salvati, ma è diventata nel corso degli ultimi anni un patrimonio internazionale. Non è dunque soltanto Israele che ne mantiene il ricordo, ma sono sempre più numerosi i paesi che sentono la necessità di considerare i Giusti come parte della loro storia migliore.


È stata questa la grande intuizione di Moshe Bejski, l’artefice del giardino di Gerusalemme, che auspicava che i Giusti non riguardassero soltanto gli ebrei, ma si dovessero considerare come “l’elite dell’umanità intera” nei tempi bui della storia. Ecco perché si era battuto affinché accanto agli alberi del giardino di Gerusalemme fosse pubblicata un’enciclopedia che ricordasse i nomi dei giusti catalogati per ogni singolo paese. Tale lavoro è stato fatto egregiamente da Liliana Picciotto con il suo volume sui salvatori italiani, ma questa dislocazione della memoria chiama a nuove responsabilità. Ogni Paese ha il dovere di ricordare le proprie figure morali con un’autonomia di giudizio ed una sensibilità che possono anche non coincidere con i tempi della riflessione che avviene nella commissione dei giusti di Yad Vashem. Per citare un caso su tutti in Italia ed in Grecia, a seguito dell’opera teatrale di Antonio Ferrari, si è dato grande valore alla figura del console Guelfo Zamboni che, durante l’occupazione nazista della Grecia, ha salvato decine di ebrei condannati alla deportazione a Salonicco, mentre a Gerusalemme l’opera del console italiano non è stata riconosciuta ed è passata in secondo piano.

In secondo luogo la memoria dei Giusti si è estesa dalla Shoah ad altri genocidi e crimini contro l’umanità ed il concetto della responsabilità personale nei confronti del Male estremo ha acquisito sempre più un valore universale. La definizione ha però assunto, come era prevedibile, una pluralità di significati nell’ambito di ogni contesto. In Ruanda c’è una grande somiglianza con il termine impiegato per la Shoah: il Giusto è in primo luogo chi ha salvato delle vite umane, come ha fatto il nostro console a Kigali Pier Antonio Costa che meriterebbe per il suo grande coraggio di essere ricordato al pari di Giorgio Perlasca.
Per gli armeni, secondo l’originale interpretazione di Piero Kuciukian, il giusto non è soltanto chi ha salvato ed ha aiutato, ma chi, come Hrant Dink, ha pagato con la vita il suo impegno contro l’assassinio della memoria e il negazionismo turco.


Per chi invece è impegnato nella salvaguardia della memoria storica del totalitarismo in Europa, il Giusto è soprattutto il resistente morale che ha difeso la verità contro la menzogna e che non ha svenduto la sua dignità e quella degli altri uomini, cedendo all’infernale meccanismo della delazione. Anna Politkovskaja, che ha pagato con la vita il suo impegno di giornalista “non educabile”, deve essere oggi collocata nella migliore tradizione degli intellettuali russi come Vassilij Grossman e Anna Achmatova che non si sono piegati sul piano del pensiero e delle parole alle intimidazioni del potere. In Bosnia, invece, il concetto di Giusto richiama quello del coraggio civile, come ha sottolineato Svetlana Broz, l’artefice di Gariwo Sarajevo che si batte da anni per la conciliazione tra le nazioni della ex Jugoslavia lacerate dalla violenza politica.


Un esempio di questo coraggio è la vicenda del professore di filosofia Dusko Kondor, che ha pagato il prezzo più alto per avere testimoniato a Bijelina in un processo contro i carnefici serbi che avevano brutalmente assassinato 26 musulmani sotto casa sua.


Accanto a queste figure a Milano si dedica un albero a Abdul Wahab, un arabo che durante l’occupazione nazista della Tunisia nascose a casa sua numerose famiglie ed evitò una sorte terribile nei bordelli tedeschi ad alcune donne ebree.


La protagonista di questa piantumazione sarà sua figlia Faiza. Il suo è un atto di grande significato morale, perché nel mondo arabo e musulmano si preferisce non divulgare di atti di umanità compiuti nei confronti degli ebrei. Per alcuni infatti non è onorevole raccontare episodi di questo tipo nel clima lacerato del conflitto mediorientale. È un fenomeno, questo, che ricorda il clima delle campagne antisioniste nel 68 nella Polonia di Gomułka. Allora, quando il nuovo nemico del comunismo era il sionismo, era disdicevole ammettere in pubblico un atto di solidarietà nei confronti di un ebreo. Faiza rompe questo tabù con la sua decisione di esporsi pubblicamente. Sta infatti lavorando questi giorni ad un documentario in Tunisia sul gesto del padre con l’obiettivo di farlo conoscere a livello internazionale.


Ma anche Yad Vashem si è mostrata finora molto restia alla ricerca di atti di solidarietà degli arabi in Tunisia, Marocco ed Algeria, paesi toccati dalle leggi razziali imposte dalla Francia di Vichy e dove migliaia di ebrei furono rinchiusi in campi di lavoro forzato.


Come ha ricordato polemicamente due settimane fa sul quotidiano Haaretz Mordecai Paldiel, l’ex direttore del Dipartimento dei Giusti di Yad Vashem, è ancora in forse l’assegnazione del titolo di Giusto per Khaled Abdul Wahab.


Il motivo: Wahab non avrebbe rischiato la vita. Lo scrittore e ricercatore americano Robert Satloff contesta questa interpretazione e ha ricordato i pericoli che Khaled ha dovuto affrontare nel volume Tra i giusti. Storie Perdute dell’Olocausto nei paesi arabi.


Ma non è soltanto questo il problema. Sono decine i casi di persone riconosciute come Giusti a Gerusalemme, senza avere rischiato la vita. Si veda il caso di Dimitar Peshev in Bulgaria, che bloccò la deportazione nel 1943, ma conservò il suo posto nel parlamento, o del doganiere Paul Gruninger che, in Svizzera, favorì l’immigrazione clandestina degli ebrei, perdendo sì il posto di lavoro, ma non mettendo mai a rischio la sua incolumità.


E allora cosa blocca il riconoscimento di Wahab? Fino ad ora sono stati nominati come Giusti decine di musulmani che hanno aiutato gli ebrei in Europa, ma mai nessun arabo delle colonie francesi in Africa. Questa era l’occasione per colmare il ritardo, ha sottolineato Mordecai Paldiel, ma una visione dogmatica lo ha impedito.


A Milano si è agito diversamente, anche per contribuire nel nostro piccolo ad un processo di conciliazione nel difficile clima mediorientale. Sarebbe dunque un grande segno di speranza se le comunità ebraiche ed arabe di Milano ricordassero insieme, il 5 maggio, la storia di Khaled Abdul Wahab alla presenza di sua figlia Faiza. Onore ad un giusto arabo.

Non perderti le storie dei Giusti e della memoria del Bene

Una volta al mese riceverai una selezione a cura della redazione di Gariwo degli articoli ed iniziative più interessanti. Per iscriverti compila i campi sottostanti e clicca su iscrizione.




Grazie per aver dato la tua adesione!

Scopri tra gli Editoriali

carica altri contenuti