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Il gulag in mezzo al mare

di Giacomo Scotti Lint Editoriale, Trieste, 2012

"Sono ormai vent’anni che Giacomo Scotti prosegue, pressoché unico in Italia, la sua tenace opera per raccontare la tragedia di Goli Otok. Situata al largo della costa dalmata, tra le ben più celebri isole di Krk e di Rab, l’“Isola calva” – così la chiamavano i veneziani  – fa onore al suo nome: una pietraia brulla e arida, bruciata dal sole d’estate, flagellata da una gelida bora d’inverno, dove ben pochi andrebbero. Se non costretti: come accadde fra il 1949 e il 1956 a decine di migliaia di veri o presunti avversari del regime di Tito, fra cui qualche centinaio di italiani. Ed è in particolare a questi ultimi che Scotti ha dedicato la sua ultima fatica. Tutto ebbe inizio con lo strappo del 1948 fra Tito e Stalin: davanti alla rottura con Mosca, molti compagni jugoslavi, cresciuti nel culto del ruolo guida dell’Unione sovietica, storsero il naso. Tito, che paventava da un momento all’altro un’invasione dei paesi “fratelli”, iniziò a temere che l’opposizione interna potesse fare da quinta colonna, magari addirittura tentare un colpo di stato; e iniziò la sistematica opera di eliminazione, o di “rieducazione”, dei cominformisti (così chiamati perché sostenitori della linea del Cominform, che aveva condannato le posizioni titine). Tra questi gli italiani, sebbene non molto numerosi, avevano tuttavia un rilievo particolare. Dall’Istria annessa alla Jugoslavia alla fine della guerra infatti moltissimi italiani, come è noto, se n’erano andati; quelli rimasti erano in gran parte comunisti, fedeli sostenitori del nuovo regime di Belgrado; e non pochi erano gli antifascisti e i partigiani italiani che, delusi dalla situazione del loro paese, avevano scelto di andare a vivere nel vicino paradiso del popolo. Comunisti di provata fede, dunque; ma italiani. E il Pci di Togliatti si era schierato a favore del Comintern e contro Tito; dunque, per una semplice equazione, gli italiani erano nemici. Comincia così, per centinaia di loro, una terribile odissea. Colpevoli a volte unicamente di avere espresso una perplessità sulla politica di Tito, a volte di aver letto giornali sospetti, a volte semplicemente di essere italiani, venivano prelevati dalla polizia politica e, senza processo alcuno – Tito aveva affidato l’opera di “rieducazione” a una commissione che poteva condannare ai lavori forzati con un semplice provvedimento amministrativo –, tradotti sulla terribile isola. Qui vigeva un sistema particolarmente efferato: i nuovi arrivati passavano fra due lunghe file di vecchi detenuti, delinquenti comuni, che li prendevano a bastonate, a sputi, a calci; quando cadevano, venivano trascinati sulle pietre taglienti, caricati di massi che dovevano trasportare carponi, frustati. Poi, a ogni nuovo arrivo, le vittime erano costrette a trasformarsi a loro volta in carnefici, e infierire duramente era l’unico modo che avevano per sottrarsi a nuove, più terribili punizioni: metodo efficacissimo per togliere a ciascuno ogni residuo di umanità.


La vita poi proseguiva secondo il medesimo canone: i lavori a mani nude per la costruzione degli edifici necessari per la popolazione in continuo aumento, la fame, la sete, le punizioni per un nonnulla. Molti sono morti per i maltrattamenti subiti, molti non hanno retto e si sono suicidati. I cadaveri venivano gettati in fosse comuni, o portati nei cimiteri delle città costiere senza che nessun parente venisse informato: solo dopo la caduta del regime comunista è potuta iniziare, da parte dell’associazione dei sopravvissuti, l’opera di ricostruzione degli elenchi dei deportati e delle vittime e di ritrovamento dei luoghi di sepoltura. Così da onorare la memoria anche di queste vittime dimenticate da tutti dell’ideologia".

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