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Shoah e genocidio cambogiano al Festival di Cannes

Memoria e ricordo alla manifestazione francese

Tra le tante pellicole che vengono presentate in questi giorni al Festival di Cannes, due meritano una particolare attenzione per aver dato spazio al tema della memoria: Le dernier des injustes, di Claude Lanzmann, e L'image manquante, di Rithy Pahn.

Lanzmann, autore del celebre e monumentale documentario Shoah, riesuma un'intervista realizzata nel 1975 a Benjamin Murmelstein. Ultimo presidente del Consiglio ebraico nell'antica città cecoslovacca di Theresienstadt che fu trasformata dai nazisti in un ghetto modello, da mostrare al mondo come se fosse un luogo paradisiaco di vacanza, Murmelstein è sempre stato considerato una figura particolarmente controversa. Accusato di collaborazionismo con i nazisti, Murmelstein fu rabbino capo a Vienna al tempo dell'annessione dell'Austria alla Germania e nel 1938, occupandosi di emigrazione, riuscì a far uscire dal paese circa 121mila ebrei, salvandoli da una tragica fine, e riuscì a evitare la liquidazione del ghetto.

Lanzmann, che alterna alle parole di Murmelstein sequenze girate in Austria, Polonia, Israele e a Theresienstadt, materiale d'archivio e suoi interventi, cerca di riabilitare la figura del rabbino, che a causa delle feroci critiche non ha potuto neanche essere sepolto nel cimitero ebraico di Roma.

Il documentario apre inoltre un acceso dibattito sulla figura di Eichmann, divenuto dopo il processo di Gerusalemme del '61 l'emblema del concetto di banalità del male coniato dalla filosofa Hannah Arendt. Come riporta il Corriere della Sera, Lanzmann dichiara:

«Altro che burocrate ottuso... Eichmann era un demonio: violento, corrotto, furbissimo. Quanto a quel processo non vale niente, fu fatto da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità. Più che della banalità del male si dovrebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt».

L'image manquante racconta invece la tragica vicenda del genocidio cambogiano avvenuto tra il 1975 e il 1979 per mano dei Khmer rossi. Il regista, testimone diretto della distruzione del suo popolo tramite campi di lavoro forzato, carestie e uccisioni, porta sullo schermo i suoi ricordi di bambino.
Rithy Panh, che aveva solo nove anni quando i Khmer rossi entrarono a Phnom Penh, perde in quegli anni tutta la sua famiglia, per fame o malattia.
Il suo racconto prende forma in figure di terracotta, lavorate e dipinte a mano, che riproducono scene dell'oppressione subita dal popolo cambogiano, spogliato di ogni diritto e costretto a lavorare ininterrottamente.

Pochissimi i frammenti di immagini d'epoca sopravvissuti, qualche spezzone di film e qualche immagine di propaganda: il regime aveva infatti anche distrutto gran parte del materiale audiovisivo esistente.

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