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L'illusione dei due Stati

articolo sul New York Times

In seguito ad alcuni articoli pubblicati dal giornale americano dove si sostenevano "l'imperativo dei due Stati" (così Roger Cohen) e la tesi per cui un solo Stato per israeliani e palestinesi sarebbe "un incubo", il professore americano Ian S. Lustick, esperto di territori contesi, ha scritto un editoriale molto interessante sul tema dei "due Stati per due popoli", soluzione prospettata da 30 anni per il conflitto israelo-palestinese.  

Una proposta per i tempi di guerra
Prima di tutto un po' di storia. Lustick spiega che quest'idea era nata negli anni '30, fu abbandonata negli anni della guerra d'indipendenza israeliana e tornò all'attenzione, prima in circoli moderati, poi nell'establishment politico occidentale, a partire dalla guerra del 1973. Ora quest'idea è di nuovo in crisi dopo il fallimento dei negoziati di Oslo, la seconda intifada, le tendenze fondamentaliste manifestatesi in questi anni (particolarmente sulla Striscia di Gaza, in Libano e in Egitto), e la crescente impopolarità del governo di Israele, che rischia di trascinare con sé anche il fragile consenso agli Stati Uniti. 
Siamo quindi di nuovo in una situazione in cui il conflitto tra israeliani e palestinesi, con sullo sfondo i sommovimenti del mondo arabo, non può essere evitato. Si tratta di prevenire una catastrofe, con uccisioni di massa e un numero imprecisato di emigrati sia ebrei che arabi, non di illudersi che non ci sia più guerra. I due Stati secondo l'accademico si potrebbero ancora formare, ma eventualmente come esito di lungo periodo di una decisione da prendere con urgenza nell'immediato: negoziare per un unico Stato misto, che perderebbe il suo carattere ebraico e sionista, ma nel quale potrebbero registrarsi nuove alleanze politiche. 

Parallelismi inquietanti
Per trasformare "ciò che hanno (la forza dei numeri) in ciò che vogliono (diritti e risorse)", infatti, i palestinesi laici potrebbero allearsi con i post-sionisti, con gli immigrati non ebrei di lingua russa, con i lavoratori stranieri e gli imprenditori israeliani che puntano al mercato globale; gli ebrei "ultraortodossi" potrebbero fare causa comune con i tradizionalisti musulmani; gli israeliani le cui famiglie provengono dai Paesi arabi potrebbero ripensarsi non come "orientali", ma come "arabi"; una serie di cambiamenti che Lustick non esita a paragonare a quelli che hanno portato a eventi disparati come l'indipendenza dell'Irlanda, quella dell'Algeria, la fine dell'apartheid in Sud Africa etc. 
La scelta di questi esempi potrebbe sembrare molto provocatoria. In effetti Israele non ha un regime di apartheid. Ci sono, in Israele, arabo-israeliani che fanno i parlamentari, gli opinionisti e gli architetti. La pagina irlandese è una delle più controverse della storia britannica (nella quale si sono registrati episodi di fanatismo e una penosa carestia che, sebbene forse non sia annoverata tra gli atti di genocidio, sicuramente fu una grave responsabilità di Londra verso gli irlandesi) e nella guerra d'Algeria si sono avute torture, sparizioni e ogni genere di massacri, una carneficina nella quale nessuno vorrebbe veder sprofondare il Medio Oriente.  Tuttavia la provocazione è volontaria. Mira a fare sì che i diplomatici, soprattutto americani, cambino traccia e si mettano al passo con la storia. 


La carta della riconciliazione

Lustick negli anni '80 ha lavorato al Dipartimento di Stato americano e ha sostenuto fin da allora questo punto di vista. I negoziatori, insiste, dovrebbero prendere in seria considerazione le alternative alla proposta dei "due Stati", che alimenta illusioni, pacifica forse le coscienze - e secondo lui dà perfino vita a una lobby mediatica -, ma nasconde problemi come il continuo tentativo di Israele di espandersi nella West Bank (problema che il professore risolverebbe creando "confederazioni" su base regionale), viene spesso usato come un alibi dalla corrotta Autorità Palestinese per mantenere i propri privilegi e impunità e mette sempre più a rischio non l'esistenza, ma la permanenza di Israele tra gli Stati del mondo. 

Esplorare le alternative possibili è un'arte negoziale degna di rispetto. L'urgenza evidenziata è reale, con tutti gli sforzi che si possono fare per cercare di tenersi in disparte da questa crisi del disegno sionista che è anche una crisi dell'assetto post-1945 e forse dei nostri stessi valori. Ciò che riesce difficile da accettare - come la proposta di una "libera zona" in Israele e Cisgiordania (le libere zone evocano infelici esperienze storiche del XX secolo, tra cui il corridoio di Danzica) viene controbilanciato dall'originalità dell'approccio e da una richiesta coraggiosa: che Israele, anche per vedere la controparte impegnarsi ad accettare compromessi su quel che considera "giusto", compia un passo verso la riconciliazione - per Lustick, sia con i palestinesi che con gli altri arabi - ammettendo le proprie colpe. Un grande gesto morale o un atto temerario? È realistico o soltanto cinico che la riconciliazione diventi oggetto di un do ut des negoziale?

16 settembre 2013

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