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Attenti al fondamentalismo islamico

intervista ad Antonio Ferrari, editorialista del "Corriere della Sera"

Un commento sulla morte di Geddafi che è stato giustiziato senza un regolare processo
Questo è il capitolo più brutto della guerra che è nata probabilmente con le motivazioni giuste, dato che Gheddafi si si stava comportando da tiranno torturatore, però  si è conclusa nel modo peggiore. È finita nel modo peggiore non a causa dell’uccisione del tiranno, che  è un evento capitato in tutti i Paesi e a tutte le latitudini: il dittatore corre il rischio di essere giustiziato.All’esecuzione davvero brutale di Gheddafi  si  sono aggiunti due aspetti: la violazione delle leggi dell’islam da parte di alcune dei ribelli che appartengono al fronte del fondamentalismo  quando si è impedita la sepoltura nell’arco delle 24 ore, come prescrive la legge del Corano, e un amore voyeuristico macabro.C’è un compiacimento verso l’immagine della morte  che non si riscontra soltanto in Libia ma in tutto il mondo arabo. Questo attiene a quel conflitto che non definirei di civiltà, usare questa espressione è una sciocchezza, ma di cultura tra la religione cristiana, quella ebraica e la parte più grezza dell’islam. Noi siamo rispettosi della vita e timorosi della morte. Nell’islam, soprattutto nel mondo arabo, non c’è questo timore della morte. Questo è una dato di fatto che ci deve far pensare.
Quali sono le motivazioni dell’esecuzione?
Accade molto spesso che il tiranno venga eliminato perché potrebbe parlare. Immaginate Gheddafi al Tribunale dell’Aja che racconta non soltanto i suoi misfatti ma anche cose che qualcuno ha preferito tacere ma che lui, pur salvarsi, sarebbe pronto a sciorinare. Credo che questo non sarebbe stato un momento esaltante per molti leader che oggi sono pronti ad applaudire alla fine della dittatura e all’inizio della libertà.
In Tunisia c'è stata una vittoria del partito filo islamico, in Libia il presidente del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt)  ha espresso la volontà di fare della Sharia la fonte del diritto. C’è il rischio di una deriva fondamentalista?
Nell’immediato futuro no, ma a medio termine sicuramente si. I regimi di Ben Ali in Tunisia, di Mubarak in Egitto,  di Gheddafi e della Siria, essendo tutti figli del nazionalismo arabo rappresentavano una componente secolare del loro Paese. Tutti erano anti integralisti, Assad lo è ancora. E questo aveva garantito una certa deriva: Ben Ali in Tunisia era un dittatore, che forse i Servizi segreti italiani hanno contribuito  a mettere al potere, cosa che hanno fatto forse anche per Gheddafi, come si racconta in una dichiarazione del Giudice Priore. Ben Ali era la garanzia che un regime laico col quale potevamo confrontarci e fare affari avrebbe potuto impedire l’ascesa del fondamentalismo. E questo è accaduto anche in Egitto. La Siria è l’ultimo anello, se dovesse cedere sarebbero davvero guai per tutto il Medio Oriente (Faccio questa osservazione riferendomi alla tenuta di un regime laico).

Dobbiamo quindi preoccuparci, a medio termine: in Tunisia emerge un partito che è espressione del fondamentalismo. Un fondamentalismo che non sarà integralismo, che non significa terrorismo ma che significa ritorno alle radici fondamentali, quelle di un islam più rispettoso della commistione tra politica e religione. In Egitto si corre lo stesso rischio perché l’unica forza organizzata che parteciperà alle elezioni sono proprio i Fratelli musulmani, in Libia queste prime dichiarazioni non sono confortanti. Posso portare anche una mia esperienza personale: ho partecipato di recente a una conferenza a Monaco per la Comunità di S. Egidio dove sono intervenuti anche due libici della diaspora di Gheddafi. Uno dei due era vicino ai fondamentalisti, l’altro molto più laico. A sentirli parlare non mi è parso che ci potesse essere molto feeling e quindi i rischi che si paventavano all’inizio potrebbero alimentarsi. La Siria sembra che stia facendo di tutto per far crollare il regime il più in fretta possibile, i crimini che la dittatura sta compiendo gridano vendetta, però c’è rischio di avere dei fronti fondamentalisti nei Paesi del Sud del Mediterraneo che potrebbero anche aprire le porte alle esperienze più estreme.
Che cosa può fare l’Europa per scongiurare questo pericolo?
Innanzi tutto dovrebbe cominciare ad essere l’Europa che non è, ora abbiamo solamente una moneta comune che sta attraversando momenti perigliosi. Questa Europa che non c’è dovrebbe smettere di rappresentare lo spettacolo indecoroso di leader politici che non danno opportune garanzie di poter affrontare duramente e seriamente una crisi di livello planetario. Dopo che l’ Europa avrà attraversato questa bufera e si comincerà ad essere un pochino più sereni , dovrebbe riprendere l’idea di un partenariato con il Sud del Mediterraneo. Il partenariato sarebbe volto a evitare che le forze che oggi sembrano vincenti possano consolidarsi e impedire l’avanzata di forze progressiste, vive in questi Paesi ma ancora decisamente minoritarie. Questa è la dimostrazione che il nostro rapporto con quei Paesi è stato sempre un rapporto di puro interesse, non lungimirante: abbiamo fatto poco per diffondere e consolidare i nostri valori, abbiamo fatto molto per riempirci le tasche, fare affari, in un periodo coloniale post moderno. 
Alla luce di quanto sta accadendo, possiamo dire chìuso il capitolo della Primavera araba?
Io rifiuto di abbandonarmi al pessimismo anche se tutto quello che vediamo induce non soltanto al pessimismo della ragione ma a limitare l’ottimismo della volontà. Io credo che noi dobbiamo continuare a sperare di poter cambiare attraverso le azioni perché facendo, anche davanti alle difficoltà, qualcosa si può ottenere. Magari non sarà tutto ma non si lascia morire la speranza. Mi ricordo una frase di Churchill: “La differenza tra un pessimista e un ottimista è che un pessimista vede difficoltà in ogni opportunità e un ottimista vede opportunità in ogni difficoltà”. Io mi auguro che prevalga una visione più ottimistica legata alla volontà, volta a ad aiutare la autodeterminazione di questi Paesi e a far crescere la condivisione di valori comuni. Valori condivisi che ci consentiranno in un momento fragile per il mondo, in quella che Andrea Riccardi definisce la triste Époque, di  fare in modo che questa triste Époque si possa chiudere.

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