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"Dedichiamo un premio a Narges Mohammadi"

Farian Sabahi sulla situazione in Iran

Farian Sabahi, cultrice della materia in Storia dell'Islam all'Università di Torino, autrice di libri come Noi donne di Teheran e di numerosi articoli per giornali e riviste, ha risposto alle nostre domande sul nucleare iraniano e i recenti accordi di Vienna per regolare la questione, molto minacciosa non solo per Israele, ma per il mondo. Ne esce un quadro ampio della situazione di tutto il Medioriente e della difficile lotta per i diritti umani anche nei Paesi dell'area storicamente più vicini agli USA, come l'Arabia Saudita che combatte gli sciiti "houthi" in Yemen e condanna un blogger come Raif Badawi alla pena disumana di mille frustate. L'intervista si conclude con un appello per i detenuti nello stesso Iran, a cominciare dall'attivista per i diritti umani Narges Mohammadi, un'altra figura di coraggio civile sempre seguita da Gariwo. 

Che cosa pensa dell’accordo di Vienna sul nucleare iraniano?

Si tratta di un ottimo risultato diplomatico, che vede vincenti tutte le parti in causa. Incluso Israele, nonostante le dichiarazioni in senso opposto del premier Netanyahu, perché l'accordo di Vienna scongiura che ayatollah e pasdaran possano dotarsi dell'atomica. Atomica che le autorità di Teheran hanno peraltro sempre dichiarato di non volere e di cui l'Aiea, ovvero l'agenzia dell'Onu che si occupa di energia atomica, non ha trovato traccia. In un certo senso, ayatollah e pasdaran sono riusciti a “vendere” all'Occidente qualcosa che non hanno mai avuto e hanno sempre dichiarato di non volere.

Quali rischi ci sono che l’Iran, o gli USA eventualmente a causa del comportamento degli oppositori di Obama, facciano deragliare gli accordi?

Prima di tirare il fiato la diplomazia deve attendere l'approvazione del Congresso americano. Sessanta giorni, e non solo trenta, perché l'accordo è slittato per motivazioni legate al calendario persiano: la dirigenza di Teheran non poteva permettersi che la notizia dell'accordo trapelasse in occasione del mercoledì in cui ricorreva la morte dell'Imam Hossein (una giornata di lutto) e tantomeno il venerdì successivo dedicato ad al-Qods (Gerusalemme) e quindi "agli oppressi".

Da parte iraniana i falchi non dovrebbero essere in grado di far deragliare l'accordo di Vienna perché devono comunque sottostare alle decisioni del leader supremo Ali Khamenei che controlla e decide la politica estera e la politica nucleare.

Quali strumenti ha la diplomazia, e quali la società civile in Iran, per impedirlo? E se le cose andassero male, che cosa si potrebbe fare per rimediare?

La società civile iraniana non ha molta voce in capitolo: la decisione di tornare al tavolo dei negoziati è stata presa dal leader supremo in seguito alle pressioni dei bazarì (i mercanti) in difficoltà soprattutto dopo l'entrata in vigore delle sanzioni sul sistema bancario che hanno impedito l'apertura delle lettere di credito e i bonifici internazionali.

Con Mousavi e Karroubi agli arresti domiciliari, in che stato è l’opposizione iraniana oggi?

Agli arresti domiciliari c'è anche Zahra Rahnavard, moglie di Mousavi. L'opposizione è stata messa a tacere ed è significativo che il presidente Rohani non sia stato in grado di far scarcerare i leader del movimento verde, una promessa che aveva fatto in campagna elettorale.

Come viene visto Israele attualmente in Iran?

Le opinioni sono diverse. Certo è che le violazioni dei diritti umani di Israele nei confronti dei palestinesi hanno ampia risonanza in Iran, così come i bombardamenti su Gaza e prima ancora la guerra in Libano. Per gli iraniani è difficile avere un'opinione positiva di personaggi come Ariel Sharon e ora del premier Netanyahu. Ma credo che gli iraniani siano anche intelligenti a sufficienza per capire che un popolo non va identificato con i suoi leader. C'è molta curiosità nei confronti dello Stato ebraico. Una curiosità alimentata dal fatto che in Iran vive, ancora oggi, una delle comunità ebraiche più antiche (oggi sono 25mila gli ebrei nella Repubblica islamica, hanno un loro deputato in parlamento) mentre in Israele vivono 250mila israliani, ebrei, di origine iraniana (il dato è stato pubblicato da David Menashri, professore emerito alla TAU, la Tel Aviv University).

Secondo Lei che probabilità c’è che ora Rouhani liberi i prigionieri politici come ha chiesto per esempio Shirin Ebadi?

Ci vorrà tempo. L'alleanza tra Washington e i paesi del Medio Oriente non porta a un maggiore rispetto dei diritti umani. Basti pensare all'Arabia Saudita, dove il blogger Raif Badawi è stato condannato a morte, con mille frustate, per i suoi scritti.

Quali opinioni ci sono nella diaspora iraniana a proposito dell’accordo tra i 5+1 e l’Iran?

Di nuovo, difficile condensare l'opinione di tante persone diverse. Alcuni sono contrariati di questo riavvicinamento tra Teheran e Washington, che in un certo senso sdogana la Repubblica islamica dopo decenni di isolamento. Ma la maggior parte degli iraniani della diaspora è felice di non fare più parte dell'Asse del male e intravede delle possibilità di business sulla scia degli accordi di Vienna.

Lei pensa che l’Iran possa essere interessato a combattere l’ISIS? Che vantaggi ne ricaverebbe e quali rischi sarebbe disposto a correre?

Uno dei motivi fondamentali per cui il segretario di Stato americano John Kerry ha trascorso diciotto giorni dialogando con gli iraniani a Vienna è proprio l'Isis: l'Esercito islamico considera gli sciiti eretici perché oltre a venerare Dio tengono in massimo conto gli Imam (i discendenti legittimi di Maometto secondo lo sciismo) al punto da considerarli infallibili laddove il Profeta infallibile non era. Di fatto, Teheran e Washington sono gli alleati naturali in questa guerra all'integralismo jihadista di matrice salafita e wahhabita.

Ci parla del conflitto attuale tra sciiti e sunniti? Può cambiare davvero i confini del Medio Oriente?

Si tratta di un conflitto che miete vittime da sempre. Pensiamo alle persecuzioni degli sciiti in Afghanistan, al tempo dei Talebani: al tempo del presidente Khatami i rifugiati afgani nella Repubblica islamica raggiunsero la cifra di quattro milioni! Pensiamo ai massacri, fin troppo frequenti in Pakistan. Tutti fatti di cronaca di cui la stampa occidentale non si occupa, tantomeno quella italiana. L'ultimo tassello in questo conflitto mortale è la guerra scatenata dai sauditi in Yemen con il pretesto di contrastare l'avanzata dei ribelli Huthi, sciiti (ma di una setta diversa, zaidita) perché probabilmente appoggiati dall'Iran. Nell'indifferenza generale, la coalizione guidata dai sauditi ha fatto tremila morti e generato mezzo milione di sfollati. Questo perché gli Huthi si sono ribellati al governo centrale del presidente Mansour Hadi, ai loro occhi colpevole di non tenere conto delle loro richieste. Tra queste, la richiesta di muovere l'esercito per contrastare l'avanzata di al-Qaeda nella penisola araba.

Che cosa ne pensa del giornalista iraniano-americano Jason Rezaian che ora è in carcere in Iran? Con l’accordo tra USA e Iran potrà essere liberato?

Suppongo che la sua liberazione sia stata oggetto di discussione e contrattazione a Vienna. Di fatto, ci vorrà qualche settimana prima che venga rilasciato, in modo da non associare il suo rilascio all'accordo sul nucleare e quindi a possibili pressioni occidentali. Come tanti altri prima di lui, Jason Rezaian è diventato suo malgrado una pedina in un gioco più grande.

Vuole fare un appello per la liberazione di Narges Mohammadi e gli altri prigionieri politici?

L'appello per la liberazione di Narges Mohammadi, stretta collaboratrice di Shirin Ebadi, lo abbiamo lanciato recentemente, in occasione di un incontro pubblico alle Grotte di Castellana in provincia di Bari. Sarebbe opportuno, a questo proposito, tenere accesi i riflettori. Per esempio dedicandole un premio che possa attirare l'attenzione dei media. Per lei e per tutti gli altri prigionieri politici. In Iran e altrove. 

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