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​L’intifada di Facebook

parla il figlio di una vittima degli attacchi in Israele

La foto preferita di Richard Lakin, padre dell'autore di questo articolo

La foto preferita di Richard Lakin, padre dell'autore di questo articolo

Pubblichiamo tradotta la toccante testimonianza di Micah Lakin Avni, imprenditore israeliano il cui padre 76enne è stato ferito a morte da alcuni giovani palestinesi nelle scorse settimane. Il suo articolo, uscito sul New York Times del 3 novembre, è una vibrante denuncia che parte dall'impegno del genitore a favore della riconciliazione tra arabi ed ebrei, per arrivare alla richiesta ai dirigenti di Facebook e Twitter di fare di più contro i contenuti online più delinquenziali che girano ora su molti account palestinesi: un caso su tutti, la mappa del corpo umano con segnati i punti dove le coltellate risultano più letali. 

Tel Aviv – Tre settimane fa, mio padre viaggiava su un autobus pubblico nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme, quando alcuni terroristi della parte orientale della città gli hanno sparato alla testa e gli hanno assestato diverse coltellate. Mentre giaceva privo di conoscenza nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Hadassah a Gerusalemme, lottando per la vita, nella mia mente c’era una domanda: che cosa ha ispirato i due giovani palestinesi ad attaccare selvaggiamente mio padre e un intero autobus di passeggeri?

Mio padre, Richard Lakin, ha dedicato la propria vita alla causa della riconciliazione israelo-araba. Da quando si era trasferito in Israele dal Connecticut negli anni ’80, ha dedicato la propria carriera a insegnare l’inglese a bambini israeliani e arabi. Ispirato dalla sua esperienza di quando marciava con il Reverendo Dr. Martin Luther King negli anni ’60, era diventato uno dei fondatori di Israel Loves Iran (Israele ama l’Iran), un’iniziativa nata sui social media per ravvicinare i cittadini di questi due Paesi. Quando si è saputo della tragedia, molti residenti cristiani, musulmani ed ebrei di Gerusalemme che conoscevano mio padre e ammiravano il suo lavoro sono accorsi al suo capezzale per portare i loro rispetti e pregare per la sua guarigione. Perfino Ban Ki-Moon, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, si è fermato per venirlo a trovare durante la sua recente visita a Israele.

Guardando queste persone benauguranti radunarsi nell’unità di terapia intensiva, tuttavia, mi sono reso conto che i leader mondiali destinati ad avere maggiore impatto sulla situazione del Medio Oriente in questo momento non erano Ban o il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, bensì Mark Zuckerberg di Facebook, Jack Dorsey di Twitter e altri giovani imprenditori che danno forma alle piattaforme dei social media che la maggior parte di noi utilizza quotidianamente.

Potrebbe sembrare strano parlare di Twitter e di Facebook come di soggetti rilevanti nella guerra contro il terrorismo, ma come prova la recente ondata di violenza in Israele, è sempre più frequente che lo siano. I giovani che sono saliti sull’autobus quel giorno con l’intenzione di assassinare mio padre di 76 anni non hanno preso la loro decisione in uno spazio vuoto. Uno di loro era un utente assiduo di Facebook, dove aveva già postato un “testamento per qualsiasi martire”. Molto probabilmente, quei giovani hanno fatto uso di uno dei migliaia di post, manuali e tutorial online che circolano nella società palestinese in queste ultime settimane, come l’immagine, condivisa da migliaia di persone su Facebook, che mostra una mappa anatomica del corpo umano con segnati i punti dove assestare le coltellate per infliggere un danno maggiore.

È nauseante pensare che anche mio padre è diventato oggetto di un tormentone sui social media palestinesi: ore dopo che è stato colpito da proiettili e accoltellato, una ricostruzione video dell’attacco è stata messa online per celebrare il crudele incidente, con un appello rivolto ai giovani palestinesi per compiere ancora più di questi omicidi di ebrei. Le immagini celebrative, i video di YouTube e i commenti sono diventati un appuntamento fisso sui social media dopo ogni attacco.

Mio padre mi ha educato ad aver cara e a proteggere la libertà d’espressione, ma è proprio il nucleo di questa libertà a essere messo in pericolo quando è usato per diffondere veleno e incitare alla violenza. Proprio com’è universalmente riconosciuto che gridare “al fuoco” in un cinema affollato è pericoloso e dovrebbe essere proibito, così ora dobbiamo riconoscere che le virulente incitazioni all’odio online sono un pericolo con cui vanno fatti i conti immediatamente, prima che altra gente innocente ne cada vittima.

Le aziende che hanno trasformato le piattaforme dei social media in un grande business sostengono, e a ragione, che monitorare ogni post è quasi impossibile, che permettere agli utenti dei social network la libertà d’espressione è essenziale, che sono già stati compiuti dei passi per combattere le incitazioni all’odio. Ma oggi sta accadendo qualcosa di nuovo, e ciò di cui Facebook, Twitter e altre compagnie si devono rendere conto è che la questione dell’incitazione alla violenza sui social network non è solo logistica o finanziaria, ma anche una questione morale.

Questa ondata di terrorismo è diversa da qualsiasi cosa abbiamo visto finora, e coinvolge non terroristi implicati in oscure organizzazioni, ma giovani uomini e donne normali ispirati da messaggi d’odio sanguinosi che vedono online e li incitano ad armarsi di coltello. Proprio come molti di noi oggi sostengono che dovremmo ritenere responsabili i fabbricanti di armi delle devastazioni causate dai loro prodotti, così dovremmo chiedere lo stesso per quanto riguarda le piattaforme dei social media, che ora vengono usate come fonti di ispirazione e manuali di istruzioni per assassini.

Una soluzione immediata è di rimuovere le incitazioni palesi senza aspettare reclami o segnalazioni formali: una cosa è esprimere un’opinione, anche quando è a favore di misure violente, e un’altra cosa è pubblicare istruzioni o grafici che insegnano praticamente come si fa a delinquere e servono a reclutare futuri terroristi. A tal proposito, una onlus israeliana ha agito legalmente contro Facebook nei primi giorni di questa settimana, chiedendo all’azienda di fare di più per monitorare e rimuovere contenuti inaccettabili. La mia famiglia si è aggregata come parte lesa a questa causa. Tuttavia, credo che qualsiasi progresso nell’abbattere questa cultura dell’odio sui social media debba provenire dalle stesse aziende. Il popolare social network Reddit, per esempio, non solo ha vietato alcuni tipi specifici di contenuto inaccettabile – come per esempio un gruppo che incitava allo stupro -, ma ha anche coinvolto determinati gruppi nel dialogo, un semplice atto di civiltà che è riuscito a ridurre drasticamente la peggior retorica. Le aziende possono e devono impegnarsi di più – usando tutti i mezzi a loro disposizione – per creare una cultura online che non tolleri violenza e odio.

Tristemente, per mio padre è troppo tardi: due settimane dopo l’attacco è morto per le ferite riportate. Quando hanno appreso la notizia della sua scomparsa, molti dei suoi amici – cristiani, musulmani ed ebrei – hanno postato la sua foto preferita sui loro canali online. Mostra un ragazzo arabo e uno israeliano, che si tengono abbracciati, con intorno, semplicemente, la scritta: “Coexist”.

Micah Lakin Avni è direttore esecutivo di Peninsula Group Ltd., una società commerciale finanziaria di Tel Aviv.

Traduzione di Carolina Figini

5 novembre 2015

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