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USA e Iran, quella fretta di concludere

opinioni fuori dal coro sull'accordo di Vienna

L'accordo tra USA e Iran ha suscitato molti timori, visto che Teheran sostiene Assad in Siria, gli hezbollah in Libano, le milizie sciite in Iraq e i ribelli houthi in Yemen. Non a caso i vicini della Persia, Arabia Saudita in testa, spendono decine di milioni di dollari in armamenti per garantirsi la superiorità tecnologica, e ora ci saranno probabilmente nuove forniture di armi da parte americana, scrivono Matthew Rosenberg e Ben Hubbard sul New York Times

Rami G. Khouri, un professore dell'Università americana di Beirut da loro interpellato, spiega che "l'agenda sottoscritta con così tanta urgenza dagli USA per il Medio Oriente potrebbe non combaciare con le preoccupazioni israeliane e saudite a differenza di come ha fatto per decenni". Questi in sintesi gli aspetti negativi dell'accordo del 14 luglio a Vienna. Definito dai più catastrofisti addirittura come una "nuova Monaco", riferendosi al trattato del 1938 con il quale Neville Chamberlain dava il via all'invasione hitleriana della Cecoslovacchia.  

Non tutti però in Israele fanno parte del partito che osteggia gli accordi tra Obama e la Repubblica Islamica. Solamente su Haaretz si trovano cinque analisi del tutto diverse l'una dall'altra. Vediamole in dettaglio.

Amir Oren sottolinea per prima cosa il fatto che il vero Chamberlain dell'accordo sul nucleare, colui che cerca di proporre un appeasement ma viene stritolato dal corso della storia, sarebbe Netanyahu, che ha condannato Israele all'isolamento e, invece di rallegrarsi per i limiti posti a Teheran come voleva Israele, esprimerebbe "frustrazione in luogo di un punto di vista politico". Poi argomenta che il sogno di potenza dell'Iran sarebbe ora più lontano anziché più vicino e che "l'opzione militare" spesso menzionata da Netanyahu non sarebbe a portata né degli USA, né degli israeliani, perché in Iran, come in Iraq, non è possibile procedere con dei raid, ma bisogna combattere sul terreno. Gli USA sono stanchi, l'era Bush è finita, il budget del Pentagono è sempre più ridotto, i giovani americani temono più che altro la disoccupazione e, per finire, oggi la minaccia reale è l'ISIS. Gli accordi potrebbero essere minati da alcuni punti deboli nella bozza, quali i confini provvisori, o la terra di nessuno prevista, ma la guerra sui dettagli serve per accontentare l'elettorato delle varie controparti, mentre l'elemento chiave è che gli iraniani stanno mantenendo la parola data e potrebbero diventare un alleato contro l'estremismo sunnita. 

Critico verso il premier israeliano è anche B. Michael, che si domanda: "Povero Netanyahu, che cosa farà adesso che gli è stato tolto il suo giocattolo preferito: l'atomica iraniana?". Secondo lui, riecheggiando alcune parti del discorso di Oren, c'è una soluzione pratica per lo Stato ebraico: provocare lui una guerra, magari togliendosi una delle proprie 200 atomiche per trasportarla segretamente in Iran e avere così un pretesto. 

Chemi Shalev evidenzia le criticità della relazione tra Obama e Netanyahu: tra loro sarebbe in corso una sorta di "guerra fredda" nella quale nessuno dei contendenti può accettare di perdere. Netanyahu non sarebbe riuscito a esercitare la sua influenza sui contenuti dell'accordo di Vienna, vedrebbe con timore le ambizioni egemoniche di Teheran uscite rafforzate dal successo diplomatico sul nucleare, reso ancora più bruciante per Israele dal fatto che l'ìran può sempre bloccare l'accesso degli ispettori ai suoi siti. Per contro Obama ha giurato che utilizzerà i propri poteri di veto in patria se i repubblicani cercheranno di ostacolare la ratifica dell'accordo. 

Anshel Pfeffer non definisce l'intesa né "storica" né "catastrofica", e sottolinea che essa lascia comunque aperta la carta dell'intervento militare a Israele nel caso di un fallimento nell'attuazione. L'Iran rimarrebbe sulla soglia di diventare una potenza nucleare, senza potere attraversare quel limite, per almeno un decennio secondo lui. Sarebbe anche costretto a smettere di considerare da parte sua gli USA come "impero del Male". Netanyahu e Obama, entrambi affetti dalla sindrome di sentirsi portatori di tutti i destini dei rispettivi Paesi, potrebbero forse beneficiare del rientro dell'Iran nel mercato, perché il Paese potrebbe normalizzarsi, trovare più difficile nascondere eventuali imprese di riarmo, avere una popolazione meno impaurita e più combattiva. Anche in caso di fallimento degli accordi, ci sarebbe subito un nuovo Presidente USA meno clemente verso gli iraniani. 

Zvi Bar'el approfondisce il tema del ruolo dell'Iran, storicamente anti-israeliano anche se si registrano sforzi da parte di Rohani per smussare gli attacchi più virulenti, negli equilibri regionali. Per lui l'Iran è il grande vincitore del round diplomatico, avendo ottenuto dalla politica internazionale più di quanto non gli fosse concesso dalle proprie dotazioni naturali di materiale fissile. "L'Iran è diventato una potenza regionale di influenza pari a quella dei Paesi arabi considerati bastioni pro-occidentali nel Medioriente", scrive il commentatore. "Sta scuotendo le tradizionali alleanze, ridisegnando le linee di influenza anche al di fuori dei Paesi nell'occhio del ciclone quali Siria, Iraq e Yemen, proiettandosi nell'arena internazionale". Per esempio sarebbe riuscito a creare una frattura tra USA e Israele e a presentarsi non più come uno Stato irrazionale guidato da persone poco illuminate, ma come un partner credibile. 

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