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Il nuovo jihadismo europeo

Tra paura e assenza di un’utopia politica

Chi sono e cosa vogliono i giovani che scelgono il terrorismo? Libri, conferenze, incontri hanno cercato in questi anni di spiegarlo - in particolare dopo gli attentati a Parigi e Bruxelles -, facendo luce sui molteplici aspetti del nuovo jihadismo europeo.
Il tema è stato anche al centro di un dibattito tra il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar, il professor Olivier Roy e il professore di sociologia del terrorismo della Luiss Alessandro Orsini, moderato dal giornalista Corrado Formigli, in occasione del Festival di Internazionale a Ferrara.

Fascinazione e crisi spirituale. Chi sceglie il terrorismo?

Il terrorismo si fonda, per definizione, sulla paura. Non tutti i giovani europei, tuttavia, sembrano temere questa logica, ma anzi ne vengono affascinati e decidono di raggiungere Daesh o altri gruppi terroristici, come sottolinea Formigli.

Ma perché i giovani scelgono questa via? La lettura di tale fenomeno non può basarsi unicamente su considerazioni socioeconomiche.
Su questo concordano Roy e Khosrokhavar. Non si tratta più solo di giovani di periferia, ai margini della società. Ci sono certamente individui psicologicamente fragili, come l’attentatore di Nizza, ma nei gruppi jihadisti ci sono anche donne, adolescenti, convertiti - tra il 20 e il 30% - e giovani di classe media, provenienti da famiglie normalmente costituite.
Il terrorismo non è quindi la frustrazione delle banlieue e dei musulmani: basti pensare alle proteste nelle banlieue del 2005, che non avevano nulla di islamico, ma erano solo movimenti contro la ghettizzazione. 
Se non unicamente economico, il problema europeo è di tipo ideologico. In mancanza di utopie e ideali, i giovani sono quindi alla ricerca di qualcosa in cui credere. Siamo di fronte a “terroristi di vocazione” - come li definisce Alessandro Orsini - che devono cioè appagare un bisogno interiore, spirituale. La conversione alla jihad diventa una reazione alla disintegrazione dell’identità sociale. Poiché cioè, come affermato nei suoi studi dal professore romano, nel nostro DNA di esseri umani non possediamo le risposte alla crisi esistenziale, le dobbiamo cercare al di fuori noi stessi. Chi sente, come i giovani che si avvicinano al terrorismo, di non appartenere alla realtà in cui vive, spesso ricostruisce la propria identità sociale attraverso un’ideologia radicale. A questo può seguire, in un lasso di tempo anche molto breve, l’inserimento in un gruppo estremista e l’alienazione dal mondo circostante, in un percorso che porta a “disumanizzare” il mondo circostante come strategia per annullare l’empatia e la difficoltà a uccidere.

C’è poi un altro elemento fondamentale da considerare: una dimensione nichilista che accomuna i giovani che hanno scelto la strada del terrorismo islamico. A differenza del terrorismo politico, negli ultimi 20 anni gli attentatori sono sempre morti - suicidi o durante l’intervento delle forze dell’ordine. Non si volevano salvare.
Roy trova una similitudine di questo atteggiamento nel massacro della Columbine High School, avvenuto nel 1999 negli Stati Uniti, quando due studenti della scuola si introdussero armati nell’edificio e aprirono il fuoco contro compagni e docenti. Dopo 13 morti e 24 feriti, i due morirono suicidi durante l’intervento delle squadre speciali. Seppure in contesti diversi, siamo in presenza degli stessi simboli della morte, di un forte narcisismo da parte degli attentatori, della stessa retorica e della morte di chi ha scatenato l’attacco.
“È una crisi spirituale, di giovani che non hanno valori - insiste Roy -. Se vuoi combattere contro l’ordine mondiale non sai più a chi rivolgerti, poiché anche l’estrema sinistra oggi si concentra su temi e problemi non più globali, ma locali. L’unica causa rivoluzionaria è Daesh, che quindi suscita un forte fascino”.

Un aspetto che unisce l’Europa al mondo arabo: l’assenza di un’utopia politica che indichi la via d’uscita dalla crisi. Crisi economica e identitaria in Europa, fallimento delle primavere arabe al di là del Mediterraneo.

Specificità europee e politica estera

Se questo può essere valido per i giovani in generale, è altrettanto vero che ogni Paese europeo ha poi la sua specificità. Le dimensioni del fenomeno in Francia, ricorda Khosrokhavar, sono ben diverse rispetto all’Italia, da cui solo un centinaio di persone sono partite per la Siria. Che si parli di multiculturalismo inglese o integrazionismo francese, siamo di fronte alla crisi di accettazione delle altre culture: in Gran Bretagna i musulmani sono una comunità nella comunità, in Francia si riconoscono più nelle leggi religiose che in quelle della Repubblica, c’è una versione inflessibile della laicità che può spingere a una radicalizzazione grave. Radicalizzazione che è diversa da quella di altri Paesi, come la Bosnia o la Danimarca, in cui chi abbraccia la jihad uccide solo in Siria, e non organizza attentati una volta tornato dal Medio Oriente.

Certo, la Francia partecipa ai bombardamenti in Siria. Ma esiste sempre un legame diretto tra terrorismo e politica estera occidentale - tenendo conto, come sottolinea Roy, del "paradosso dell'indifferenza", per il quale l'Occidente viene attaccato se interviene in Medio Oriente e allo stesso tempo viene accusato di essere indifferente? 
Nel discorso dei terroristi si fa spesso riferimento a una vendetta della comunità dei musulmani nel mondo. Ma vendetta per cosa? Il colonialismo, l’imperialismo, la guerra in Afghanistan, in Iran, in Siria? Non c’è un riferimento a una battaglia particolare, sottolinea Orsini, perché questi giovani non sanno nulla della geopolitica del Medio Oriente. Non in tutti i casi si può quindi trovare una “giustificazione” del terrorismo nelle scelte di politica estera occidentale - per cui, ad esempio, non ci sono stati attentati in Danimarca, nonostante il Paese abbia partecipato alla coalizione internazionale a guida americana in Siria e Iraq, così come il jihadismo è contro Hezbollah, che però è sostenitore della causa arabo-palestinese.

Il ruolo dei luoghi di culto

In questo quadro, come rispondere quindi alla crisi spirituale dei giovani europei? Innanzituttoreagendo a quello che, soprattutto nei Paesi francofoni, è un fenomeno sempre più diffuso: la deculturazione dell’Islam, una rottura linguistica, religiosa e culturale dei giovani rispetto ai genitori - che vengono visti come “cattivi musulmani”.
È necessario quindi trasmettere un Islam calato nel paesaggio culturale europeo, ed è per questo che è e sarà centrale il ruolo degli imam e delle moschee. Come spiega Olivier Roy, il compito delle moschee e dei luoghi di culto è quello di produrre un dibattito all’interno della comunità musulmana su come vivere l’Islam in Europa, conciliando la tradizione religiosa ai valori della società come il rapporto tra uomo e donna, tra culture diverse o il rapporto con lo spazio pubblico.
Fondamentale in questo percorso è il ruolo degli imam, che però sono conservatori, non conoscono la società e non danno ai giovani le chiavi per vivere la loro fede in una società moderna. Così come oggi accade per la Chiesa cattolica, nei Paesi europei c’è una crisi nel reperimento di candidati a ricoprire il ruolo di imam. Queste figure sono infatti scarsamente retribuite, non hanno molto potere nella moschea, e per questo i giovani locali - laureati, maggiormente integrati nelle rispettive società - non aspirano a questa professione. Di conseguenza, le moschee “importano imam dal terzo mondo, importando così anche una visione dell’Islam conservatrice e non calata nella realtà europea".

Risposte e integrazione

In questo scenario, di vitale importanza saranno le risposte europee alla sempre più urgente situazione dei profughi. Le paure di una parte dell’opinione pubblica europea potrebbero concretizzarsi tra qualche generazione solo se l’Europa mancherà l’opportunità di integrare positivamente chi fugge dal Medio Oriente e dall’Africa - fughe a cui gli stessi terroristi cercano di opporsi, pur di non perdere un potenziale bacino di carne da macello per i loro attentati. Se la risposta non sarà l’emarginazione di queste persone, i profughi potranno addirittura diventare uno “scudo” contro l’Isis.
Tutto questo non può chiaramente prescindere dal fornire a queste persone le basi per la comprensione della cultura europea, in modo tale da creare un terreno comune per imparare a vivere insieme.
Come sottolinea Khosrokhavar, l’odio per la società che sta avvicinando i giovani musulmani al terrorismo spesso deriva anche dall’essere sempre trattati come traditori. “Mentre vietare il velo integrale è una questione di sicurezza, misure come il divieto del burkini non sono accettabili. L’Europa deve solo assicurarsi che le donne che portano il velo godano di pieni diritti, che la loro sia una libera scelta e non il frutto della sottomissione agli uomini”.

Oggi siamo di fronte alla crisi di Daesh, che sta perdendo sia i suoi esponenti, sia terreno sul campo di battaglia. Presto ci sarà la battaglia di Mosul, e lo Stato islamico sarà ulteriormente ridotto. Di conseguenza cambieranno anche le strategie del terrore. Gli attentati saranno meno organizzati, più semplici, diluiti nel tempo e ad opera di singoli individui, seguendo la tendenza che si sta delineando già negli ultimi mesi - come nei recenti attacchi a New York.
Se anche Isis sarà sconfitto - e per la sua caduta definitiva occorrerà tempo, perché ogni attore coinvolto nella lotta contro Daesh ha rivalità regionali che impediscono una efficace battaglia comune - sarà indispensabile fornire ai giovani quella nuova “spiritualità” fatta di utopie e ideali, per non farli cadere in una nuova forma di jihadismo e radicalismo.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

4 ottobre 2016

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