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Le "spose" dello Stato Islamico

Reportage del NYTimes sulla polizia femminile dell'Isis

"Avevo incontrato queste donne siriane per raccogliere notizie sulle occidentali. Ma ho capito subito che erano loro la storia più importante, le loro vite erano state distrutte da Assad": è quello che racconta al Corriere della Sera la giornalista iraniano-americana Azadeh Moaveni, autrice di un reportage sulle "spose" dell'ISIS pubblicato il 21 novembre sul sito del New York Times.

Dua, Aws e Asma sono le tre donne che raccontano la loro vita, la loro città, Raqqa, ora roccaforte dell'ISIS - o Al Tanzeem, l'Organizzazione, come viene chiamato lo Stato Islamico dagli abitanti della città. Raccontano una storia che ancora non conosciamo, e lo fanno da un punto di vista inaspettato, quello delle donne dello Stato Islamico. 

La brigata Khansaa, questo il nome del corpo militare di cui le donne facevano parte, prevede un percorso molto duro per l'arruolamento: quindici giorni di addestramento alle armi a tempo pieno, lezioni di religione per approfondire le leggi e i principi dell'Islam. E così inizia il vero lavoro: alcune donne prendono parte alle pattuglie nelle strade della città, altre, come Asma, incontrano le donne volontarie provenienti dai Paesi occidentali per scortarle fino a Raqqa, dove inizieranno anch'esse il proprio training. Infatti, le donne della brigata Khansaa non sono solo siriane: si tratta di inglesi, francesi, tunisine, donne di tutto il mondo. Come raccontano le tre ragazze intervistate da Moaveni, le straniere ricevevano un trattamento di cortesia e possedevano maggiori libertà: "forse si deve al fatto che hanno dovuto lasciare i propri paesi per venire qui", ammette Dua. 

Il trattamento riservato a ognuna di loro, in ogni caso, non è segnato solo dalla propria nazionalità, ma dipende in parte anche dallo status dei propri mariti, i quali spesso, volontari in missioni suicide, lasciano queste donne vedove e vittime di un destino incerto, dipendente per la maggior parte dall'uomo che lo Stato Islamico sceglierà come loro prossimo consorte. È quello che è successo a Dua: l'Organizzazione l'aveva resa vedova e voleva farlo ancora, facendola diventare "una continua distrazione temporanea per combattenti suicidi. Senza scelta, senza dignità".

Ma quali sono le motivazioni che hanno spinto queste donne a unirsi all'ISIS? Difficile rispondere, perfino per le tre ragazze interpellate. Una di loro, Asma, offre una risposta forse ingenua, ma estremamente sincera e lucida: "Per me si trattava di potere e denaro, ma soprattutto potere. Dato che tutti i miei parenti si erano uniti all'Organizzazione, il fatto che anche io prendessi quella decisione non cambiava le cose. Avrei semplicemente avuto più autorità".

Dopo il confronto con la barbarie, l'intolleranza e la violenza subdola, anche psicologica, dell'ISIS, la fuga è l'unica soluzione che queste donne hanno per sperare in un futuro migliore. Un futuro che, tristemente, sarà lontano dalla propria terra natale, lontano dalla Siria, lontano da Raqqa, perché troppo sangue è stato versato su entrambi i fronti, e tornare indietro è ora impensabile. "Chi può sapere quando questa guerra finirà?" dice Asma. "La Siria diventerà come la Palestina; ogni anno, le persone pensano: 'L'anno prossimo finirà. Saremo liberi.' E i decenni passano".

23 novembre 2015

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