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“Noi ci siamo, siamo qui!”

Il risveglio degli armeni di Istanbul a cento anni dal genocidio

Pubblichiamo di seguito l'articolo del professor Gérard Malkassian sul risveglio degli armeni di Istanbul, pubblicato sull'ultimo numero del mensile Nouvelles d’Arménie Magazine, dedicato alla commemorazione del centesimo anniversario del genocidio armeno in Turchia. 

È stato scandendo questo slogan che decine di giovani militanti armeni di Nor Zartonk (Nuovo Risveglio) sono scesi di nuovo sulla via Istiklal, dove ha sede il liceo Galatasaray nei pressi del centro culturale francese, per raggiungere la folla che commemorava il centenario del genocidio, il 24 aprile a partire dalle 18. La maggioranza delle persone erano turchi non armeni o armeni della diaspora. La popolazione armena di Istanbul invece era presente alle iniziative a porte chiuse, quali il concerto “In memoriam” del 22 aprile organizzato dalla fondazione Anadolu Kültür al Palazzo del Congresso di Harbiye e la messa solenne in memoria delle vittime del 1915 celebrata alla chiesa Sourp Asdvad-zadzin (Notre Dame) di Kumpkapi, sede del patriarcato. Ma questa gente reputa più prudente non riunirsi su una piazza pubblica. È per questo che l’arrivo in pompa magna di questi giovani armeni, liceali e studenti che oltre che una commemorazione hanno celebrato un Armenian Pride, ci ha fatto scoprire una realtà nuova: Hrant Dink non è solo, ha lasciato un’eredità della quale sempre più cittadini turchi membri della comunità armena si appropriano.

Gli armeni sotto i riflettori

Dopo decenni in cui si vergognavano di sé e non uscivano mai allo scoperto, gli armeni si riaffacciano alla vita pubblica in molti modi, oggi in Turchia. L’incontestabile apertura politica avvenuta dopo il 2002, data di arrivo al potere degli islamisti dell’AKP, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, per prima cosa ha riportato gli armeni al centro dell’attenzione. Il libro di Fethiye Çetin Libro di mia nonna come pure l’altro libro, Gâvur Mahallesi, (Il Quartiere degli Infedeli), la traduzione turca di Du Côté de chez nous di Mıgırdiç Margosyan, che racconta con stile raffinato e compartecipazione emotiva l’infanzia trascorsa dall’autore a Diyarbakir, hanno avuto un notevole successo al punto che il secondo di questi libri al giorno d’oggi è anche il soggetto di un film documentario di larga diffusione. Le librerie del centro di Istanbul espongono in vetrina la traduzione di testi di riferimento sugli armeni, tra cui per esempio Le génocide des Arméniens di Raymond Kévorkian, a fianco delle pubblicazioni negazioniste. I CD di Onnig Dinkjian, che reinterpretano il patrimonio musicale degli armeni di Dyarbékir, quelli di suo figlio Ara Dinkjian e quelli del musicista jazz-pop Arto Tunçboyacyan troneggiano sugli espositori mentre di sottofondo si ode una melodia di Komitas. Durante la gita in battello sul Bosforo, i commenti audio, presentando i palazzi imperiali del XIX secolo, citano ormai gli architetti della famiglia Balyan, mentre ancora qualche anno fa poteva succedere che le attribuissero al misterioso architetto italiano “Baliani”.

In questo clima dove la presenza armena è riconosciuta e mostra qualche tendenza a banalizzarsi, si osserva l’inizio di un cambiamento radicale del comportamento di alcune frange della comunità armena. Certo, l’inquietudine c’è sempre. L’assassinio di Hrant Dink nel 2007, l’omicidio del giovane coscritto Sevag Balıkçı il 24 aprile 2011, i cui processi sono a costante rischio di insabbiamento, ricordano a tutti che la vita di un armeno è più vulnerabile di quella di ogni altro cittadino della Turchia, ma si sta affermando sempre più la consapevolezza che questo non debba vanificare l’azione, e perfino che contribuirà a meglio proteggere gli armeni. Il settore culturale è quello che si è sviluppato più in fretta perché è nel suo seno, nella cittadella di una lingua armena assediata dall’espansione irresistibile del turco, che è stata assicurata all’identità di questo popolo una continuità minimale. Pensiamo a Rober Haddeciyan, redattore capo quasi nonagenario di Marmara, uno dei quotidiani in lingua armena. Rispettato da tutti, non ha cessato di difendere con dignità e passione il patrimonio letterario armeno – ha recentemente ripubblicato una serie in dieci volumi delle sue cronache di storia letteraria, sapendo ben adattare il suo giornale alle nuove condizioni che dominano nelle relazioni tra gli armeni, lo Stato turco e la società.

I riferimenti imprescindibili

Le edizioni Aras rappresentano senz’altro un attore culturale più recente (vent’anni di età) e più visibile. Rober Kopta, direttore della pubblicazione ed ex redattore capo di Agos, ricorda la strategia di questa casa editrice: pubblicare il patrimonio armeno della Turchia in versione originale, ma anche e soprattutto tradurlo in turco. L’obiettivo è duplice: permettere a più armeni, ormai sempre più in difficoltà con la loro lingua madre, di riappropriarsi della cultura letteraria, ma anche far conoscere questo mondo sconosciuto al pubblico non armeno. Così il poeta Zahrad o il romanziere Zaven Biberyan sono ormai accessibili a un pubblico molto più ampio. Rober Kopta assegna due obiettivi principali allo sviluppo di Aras: in primo luogo, l’intensificazione dell’attività di traduzione, che esige prima di tutto la formazione di una équipe di traduttori dall’armeno verso il turco: sono rari, il che testimonia della relativa chiusura che ha a lungo caratterizzato la cultura armena; in secondo luogo, l’allargamento della sua mission all’insieme della diversità dei popoli e delle religioni che costituiscono la Turchia di oggi.

Ben inteso, il giornale Agos rimane il portavoce imprescindibile della presenza armena attiva nella società civile turca, alla quale si rivolge direttamente in turco, per tre quarti dei contenuti che pubblica. Pakrat « aghparig » (in armeno “fratellino”) Estukyan, redattore capo della parte in lingua armena, costituisce una figura di riferimento importante da quando è scomparso Sarkis Seropyan, cofondatore di questo giornale, a marzo di quest’anno. Questa constatazione vale in particolare per la giovane generazione impegnata di Nor Zartonk, perché Pakrat Estukyan non indietreggia affatto davanti alle prese di posizioni trancianti prese sia a proposito dei problemi della comunità armena che a proposito della situazione nazionale e internazionale.

La dimensione politica

Tutti i miei interlocutori citano due fattori essenziali per spiegare nuovo dato: il riconoscimento di fatto della questione curda, cioè il fatto che il movimento curdo sia pervenuto a imporre i suoi problemi allo Stato, è stato un incoraggiamento di primaria importanza per l’insieme delle minoranze: armena, alevita, etc. che si ritrovano spinte da questa corrente che si afferma particolarmente nel sud est e in certi quartieri delle grandi città. Hrant Dink, inoltre, il cui messaggio di dialogo e giustizia, al di là della sola rivendicazione della memoria, costituisce il modello fondatore.

Il movimento Nor Zartonk è composto principalmente di studenti che si considerano come i figli di Hrant Dink. La loro parola d’ordine, « Noi ci siamo, noi siamo qui »- significa due cose: la difesa pubblica degli interessi del “popolo armeno” della Turchia e il suo inserimento nelle sfide e nelle lotte di tutti i cittadini turchi. Leggendo i loro testi su http://www.norzartonk.org/?req...;reqr=, si scopre un programma molto ampio ispirato alla sinistra radicale europea, che mescola accenti marxisti a una preoccupazione ecologista e a un’attenzione alle minoranze, siano esse etniche, religiose o sessuali. Perfino se si può osservare una certa ingenuità in questo cocktail, proprio di una gioventù che essi rivendicano fieramente di fronte a una comunità che secondo loro è dominata da una gerontocrazia, si vien colpiti dalla maturità e la forza delle loro convinzioni fondamentali. Promuovere un’armenità laica di lotta: si tratta di agire partendo da un complesso di inferiorità e dall’ambiguità delle vecchie generazioni, che per molti vedono incarnate fortemente nel quotidiano Jamanag, il più vecchio quotidiano turco esistente oggi, e nella chiesa che, dal 1915, rimane l’unica rappresentante degli interessi armeni.

Nor Zartonk

In questa prospettiva, la rivendicazione del riconoscimento del genocidio è certamente presente – il motto di Nor Zartonk dev’essere letto come: “Noi, ci siamo ancora”. Ma essa non gioca un ruolo di trascinamento, scompare dietro le urgenze del momento e un obiettivo a lungo termine: assicurare la perennità e l’avvenire della comunità armena in Turchia. Ciò passa per l’esigenza di giustizia per tutte le vittime di omicidi razzisti, la difesa delle scuole armene, che mancano di fondi pubblici, il che fa sì che la metà dei bambini armeni non possa studiare in queste scuole ma studi in scuole in lingua turca, l’accoglienza alle famiglie emigrate e la scolarizzazione dei loro figli (visto che, secondo i termini del Trattato di Losanna del 1923, essi, in quanto stranieri, devono iscriversi negli istituti turchi). Nor Zartonk di recente è stato all’avanguardia nella lotta per preservare Kamp Armen, l’orfanatrofio di Tuzla, nella periferia asiatica di Istanbul, dove Hrant da bambino aveva effettuato numerosi soggiorni e di cui un tempo fu direttore. Il sito è minacciato di distruzione a fini di speculazione immobiliare. La mobilitazione ha permesso d’ottenere una moratoria, il che costituisce una prima vittoria.

Ma la sfida politica è duplice agli occhi di Nor Zartonk come per numerosi attori della comunità: associare l’insieme dei cittadini della Turchia a questa lotta. Il parere predominante è che è sulle terre dove ha fatto la sua comparsa la questione armena che essa troverà una soluzione positiva e questo non sarà possibile che quando il Paese sia diventato una vera democrazia. Questo obiettivo necessita di un’alleanza di tutte le forze e i portatori di volontà politiche che, in Turchia, vogliono un Paese aperto alla diversità e determinato a rompere con un passato nel quale i problemi politici sono stati sistematicamente regolati dalla violenza – dal 1915 ai diversi colpi di Stato militari, di cui l’ultimo risale al 1980. Si combatte ancora a fianco di ONG turche come il movimento antirazzista DurDe o l’IHD, l’associazione dei diritti dell’uomo, e dei partiti politici come l’HDP, il Partito democratico dei popoli, emanazione del movimento curdo, al quale Nor Zartonk è vicino.

La sfida delle elezioni di giugno

Lo si constata di frequente: il riconoscimento della vicenda armena si inscrive a poco a poco nella società civile e nella vita politica della Turchia. Le elezioni parlamentari di giugno sono significative a tal riguardo. A Istanbul, ciascuno dei grandi partiti presenta almeno un candidato che afferma la propria armenità: Selina Özuzun Dogan per il CHP, il Partito repubblicano del popolo, Markar Esayan per l’AKP e svariate personalità, tra cui Garo Paylan, per l’HDP. Selina Özuzun Dogan ha potuto tenere dei discorsi pubblici affermando la realtà del genocidio senza subire sanzioni dalla parte del CHP, erede del kemalismo. Questa situazione riflette una frattura dell’elettorato armeno all’immagine del resto della popolazione, anche se una maggioranza pende più per l’AKP e l’HDP, più aperto verso le minoranze. La frattura in seno alla corrente democratica turca si ritrova peraltro anche tra gli intellettuali armeni che dispongono di una visibilità pubblica.

Da un lato si incontrano il giornalista Markar Esayan o Etyen Mahçupyan – di recente «dimissionató » dal suo posto di consigliere speciale del primo ministro Ahmet Davutoglu. (Più per le sue critiche alla corruzione di numerosi responsabili di alto livello dell’AKP che per le sue proposte che affermano la realtà del genocidio armeno). Essi credono ancora, nonostante la svolta autoritaria, allo slancio riformatore di Recep Tayyp Erdogan e dell’AKP, e propugnano un approccio moderato e graduale. Di contrasto a loro, si contano Rober Kopta o Hayko Bagdad, giornalista collaboratore al quotidiano liberale Taraf, che sono convinti che sia sul versante dell’HDP e di una manovra più radicale che ormai si andrà affermando la dinamica di rinnovamento.

L’HDP ha introdotto per la prima volta nel suo programma il riconoscimento dei “genocidi” commessi in Turchia (inclusi, oltre al caso armeno, quello degli assiri e degli aleviti di Dersim nel 1937- 1938) La sfida è consistente: si tratta di affermare la questione curda sul piano nazionale passando lo sbarramento, elevato, del 10% che permette di inviare deputati al Parlamento. E così facendo si tratta anche di impedire all’AKP di ottenere il numero di voti che gli permetterebbe di modificare la costituzione nel senso di una presidenzializzazione del regime secondo quanto desidera l’attuale capo di Stato Recep Tayyip Erdogan. Il paradosso di questa configurazione, secondo l’analisi di Rober Kopta, è che gli elettori del CHP costituiscono l’obiettivo comune dell’AKP e dell’HDP, il primo intento a blandire la sensibilità nazionalista, il secondo il tessuto laico. Un’evoluzione degli spiriti nel campo kemalista si può notare peraltro: oltre alla candidata armena, bisogna citare la stupefacente prima pagina del quotidiano Cumhuriyet, uno dei templi del kemalismo, il 24 aprile: l’editoriale affidato a Rakel Dink sotto un grande titolo in armeno: « Mai più ». Il movimento curdo si trova anche al bivio tra un’alternativa cruciale per il suo futuro e indirettamente per il futuro degli armeni: attenersi al proprio ruolo statutario di rappresentante esclusivo “naturale” dei curdi, condannandosi a una funzione di minoranza di veto; oppure aprirsi e trasformarsi in un gran movimento di modernizzazione e diversità, che implicherebbe di oltrepassare i confini della comunità d’origine, prendendo le distanze dal punto di vista separatista. I dirigenti dell’HDP, che accolgono nelle loro liste numerosi attori del movimento democratico di contestazione, sono pronti a farlo?

E noi?

Io sono convinto che noi, armeni della diaspora, dobbiamo ormai prendere in considerazione due dati essenziali:

È in Turchia e con i turchi che noi dobbiamo fare il percorso che porta al riconoscimento del genocidio e all’edificazione di un cammino comune di memoria e azione, senza rinunciare, ben inteso, all’arma della pressione internazionale.

In questo quadro, bisogna riconoscere il loro posto agli armeni di Turchia rimasti nel Paese, che a questo titolo non sono né Hayanstantsi (armeni residenti in Armenia, l’antico Hayastan), né armeni della diaspora, e sono chiamati a essere intermediari privilegiati della costruzione dei legami armeno-turchi. Siamo pronti a questo gesto, tanto più difficile in quanto ci rimanda a un passato doloroso e che esige la presa in conto di priorità differenti, legate alle urgenze del presente già ricordate? Siamo disposti a cessare di vederli come vittime passive o traditori potenziali e ad associarci a loro per fare progredire le cose nella società turca? Certo, gli armeni di Turchia sono oggi un’infinitesimale minoranza, di circa 40 -̀ 60 000 persone su 78 milioni di abitanti che in stragrande maggioranza non ne sanno nulla. Ma la questione degli armeni islamizzati, sempre più numerosi, da rivendicare come parte della comunità, assume gradi diversi. Il retaggio dell’identità armena, anche se loro non sono pronti a cambiare la loro cultura e la loro religione, può cambiare il dato: quanti sono in realtà? Alcune decine o centinaia di migliaia, oppure uno o due milioni? Se questo fosse il caso, e nessuno, alla luce di ricerche serie, lo può escludere, ciò diventerebbe un fattore demografico e politico importante, almeno in certe regioni.

Sì, i nostri fratelli dicono: “Ci sono, sono qui, ci sono ancora”, e superano progressivamente una paura legittima presente nel loro intimo. Dobbiamo ascoltarli, interamente facendoci interlocutori e riconoscendoli come parte a pieno diritto della risoluzione pacifica del contenzioso armeno-turco.


Gérard Malkassian, storico e docente di filosofia a Parigi

Tradotto da Carolina Figini

12 giugno 2015

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